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Il caso Raquel Saraswati e i bianchi che si fingono neri per fare carriera

Attivista americana, era stata assunta e promossa in un'organizzazione per i diritti perché appartenente a una minoranza etnica. Peccato non fosse così. E non è il primo cortocircuito nell'èra delle politiche identitarie

Rodolfo Casadei
01/03/2023 - 5:30
Società
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Raquel Saraswati

Il catalogo delle personalità del mondo anglosassone che hanno simulato un background etnico riconducibile a un gruppo svantaggiato per trarne vantaggio in termini di carriera e di leadership si è arricchito di un caso che non ha precedenti: quello di Raquel Evita Saraswati, al secolo Rachel Seidel, consigliere nominata dal sindaco di Philadelphia nella Commissione per gli Affari Lgbtq, proclamata “donna dell’anno 2019” dalla National Organization for Women (Now) di Philadelphia e Ufficiale capo per la Giustizia, l’inclusione e la cultura dell’American Friends Service Committee (Afsc), un’organizzazione progressista quacchera. Tutti questi riconoscimenti e tutte queste funzioni ufficiali sono piovuti sulla 39enne di Paterson, New Jersey, soprattutto perché concentrava su di sé un filotto di caratteristiche sublimi: donna, musulmana, lesbica, persona di colore con ascendenze latinoamericane, asiatiche ed arabe. O almeno questo era ciò che lei diceva di se stessa.

Le origini italiane, britanniche e tedesche di Saraswati

Settimana scorsa il trucco è stato smascherato da un’inchiesta del periodico The Intercept, messo in allerta da una lettera aperta di sostenitori dell’Afsc perplessi che avevano raccolto informazioni: Raquel Saraswati, come si fa chiamare, non è una persona di colore, suo padre era di origini italiane (calabresi), sua madre Carol Perone (il cognome proviene dal secondo matrimonio della signora) vanta un background britannico e tedesco e ha confermato i sospetti sulla falsa identità etnica vantata dalla figlia. La quale non ha ancora risposto alle accuse.

Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome
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Prima di rendere privato il profilo, sul suo account di Twitter ha postato e poi cancellato alcuni messaggi dai contenuti vaghi. In uno di questi si leggeva: «Assicuro le persone che non appena ne sarò capace, fornirò risposte alla recente discussione e agli attacchi contro di me. Capisco tutte le reazioni che state avendo. Attualmente mi sto prendendo del tempo per arrivare allo stadio in cui posso rispondere in un modo che sia massimamente utile e completo».

Il responsabile del personale di Afsc, Oskar Pierre Castro, ha ammesso che la decisione di assumerla e affidarle una responsabilità dirigenziale all’interno dell’organizzazione è dipesa dalla caratteristiche identitarie uniche della candidata: «Toccava davvero tutti i punti. Sembrava che ci fosse l’elemento dell’esperienza vissuta e della comprensione a motivo dell’esperienza vissuta, non solo della formazione accademica e del tirocinio necessari per essere assunti in una posizione come quella del professionista dell’equità e dell’inclusione. Nella mia mente ho pensato: “Fantastico, una persona di colore, una persona di colore queer, che è pure musulmana, è una donna, tutte queste cose insieme, e che fa al caso nostro”… mi sento decisamente truffato. Mi sento ingannato».

Raquel Saraswati, campionessa della cause Lgbtq

Secondo le inchieste giornalistiche, Seidel/Saraswati si è effettivamente convertita all’islam mentre frequentava le medie superiori, e si è unita in un matrimonio omosessuale a Anh Dao Kolbe nel 2005, dalla quale ha poi divorziato. In seguito è apparsa in varie trasmissioni televisive di emittenti di destra come Fox News e Newsmax nel ruolo di “musulmana moderata” e ha collaborato con organizzazioni ostili all’islamismo come l’American Islamic Forum for Democracy e il Clarion Project.

Dopo il 2013 l’attivista vira a sinistra e diventa una campionessa delle cause Lgbtq, si fa fotografare con magliette con la scritta “Faccio il tifo per i neri e per i trans”, fino ad essere nominata nella Commissione per gli affari Lgbtq di Philadelphia. Che lascia nel giugno 2021 quando viene assunta dall’Afsc. Già nel 2015 le sue credenziali erano state messe in discussione dalla giornalista Sana Saeed collaboratrice di Al Jazira, che notava come il colore della pelle della Saraswati andasse scurendosi col passar del tempo e delle foto, e come il cognome fosse evidentemente falso, ma a quel tempo pochi ci avevano fatto caso.

I bianchi che si fanno passare per neri

Non è la prima volta che qualcuno cerca di far carriera nel mondo anglosassone facendosi passare come membro di una minoranza discriminata, e sul Sunday Times l’editorialista Hadley Freeman ha rievocato i casi più famosi. George Santos, deputato repubblicano del Congresso, fra le tante bugie pronunciate nelle interviste e attestate nella sua biografia ha pure dichiarato che i suoi nonni materni erano profughi ebrei ucraini sopravvissuti all’Olocausto: in realtà è brasiliano quattro quarti.

Rachel Dolezal, una insegnante e attivista dei diritti civili che si faceva passare per afro-americana e che nel 2014 arrivò a farsi eleggere come presidente della sezione di Spokane (stato di Washington) della Naacp, l’Associazione nazionale per la promozione della gente di colore, prima di essere costretta a dimettersi dalla carica l’anno dopo, quando la falsità delle sue dichiarazioni precedenti venne alla luce; la Dolezal (che dal 2016 ha cambiato nome in Nkechi Amare Diallo) si è giustificata dichiarando di essere una fautrice dell’identità transrazziale, cioè del diritto delle persone che si sentono di appartenere a una razza diversa da quella biologica a essere accettate socialmente come persone della “razza percepita”.

Chi fa il furbo sulle proprie radici etniche

Elizabeth Warren, senatrice democratica del Massachusetts e candidata alle primarie del suo partito per concorrere alle elezioni presidenziali del 2020, per anni ha asserito di avere antenati nativi americani cherokee e si è dichiarata tale in documenti ufficiali, ma dopo molte critiche ricevute per la vaghezza e non dimostrabilità dei suoi riferimenti è stata costretta a ritrattare anche per le proteste della nazione Cherokee.

Satchuel Cole, attivista di Black Lives Matter e di Showing up for racial justice nell’Indiana, della causa abortista e di quella lgbtq (usa e chiede che siano usati con lei i pronomi essi/loro) nel settembre 2020 ha dovuto chiedere scusa, senza usare i pronomi, «per avere occupato spazio come persona di colore pur sapendo che sono bianca. Ho usato l’essere nero quando non era mio diritto usarne. Ho chiesto sostegno ed energia come persona di colore. Ho fatto del male alla città, agli amici e al lavoro che mi era tanto caro». Tutto è avvenuto attraverso Facebook, dove sono apparsi i post in una pagina sotto il nome Satch Paige nei quali si presentava come nera americana e dove è stato postato il testo di scuse.

Tutti i neri sono vittime, tutti i bianchi sono razzisti

Viene quindi il turno di Hilaria Thomas Baldwin, moglie di Alec Baldwin e insegnante di yoga, che per anni si è fatta passare come persona di origini spagnole senza dichiararlo personalmente, ma facendolo credere attraverso astuzie come un accento apparentemente ispanico e l’indicazione del suo luogo di nascita a Mallorca (in realtà è nata a Boston), fino a quando non è stata attaccata su Twitter per il suo comportamento. Ha dovuto ammettere che il suo rapporto con la Spagna è consistito in alcune vacanze là da bambina.

Commenta Hadley Freeman: «Le politiche identitarie sono state escogitate per celebrare le minoranze, ma sono diventate un rozzo strumento che incasella tutti in categorie generalizzanti: tutti i neri sono vittime, tutti i bianchi sono razzisti, e così via. Se non ti piace l’etichetta appiccicata al tuo gruppo demografico, e il tuo istruttore di pregiudizio inconscio ti dice che il colore della tua pelle dimostra che è vero, quale altre opzione hai se non di fare come la Saraswati e tirare fuori l’abbronzante?».

Ma non si tratterebbe solo di una questione di disagio psicologico davanti alla propria identità colpevolizzata. Secondo un membro della dirigenza dell’Afsc che intende mantenere l’anonimato ci sarebbe almeno un altro genere di motivazione: «La DEI (le politiche aziendali di Diversity, Equality, Inclusion – ndt) sta diventando un’industria multimiliardaria: è richiesta da grandi corporation, aziende, organizzazioni no-profit», dichiara a The Intercept. «I dati mostrano che solo una piccola percentuale di direttori del DEI sono neri. E ora avete gente bianca che si colora la faccia di scuro per entrare nelle posizioni di DEI, con relativi stipendio, risorse e potere».

Tags: antirazzismoidentity politicsrazzismoUSA
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