

La guerra scatenata da Vladimir Putin contro l’Ucraina non ha scalfito il suo gradimento in Russia. Anzi. Secondo un sondaggio condotto dal Levada Center, l’unico istituto demoscopico indipendente nel paese, e dal 2016 sanzionato dal Cremlino come “agente straniero”, l’83 per cento dei russi sostiene Putin. «E il suo consenso crescerà ancora», dichiara al Corriere, Alexey Levinson, direttore del dipartimento socioculturale del centro.
Il 53 per cento dei russi sostiene «decisamente» la guerra, il 28 «abbastanza». La propaganda di Putin in patria funziona, continua Levinson, non solo perché i russi, a causa delle nuove leggi approvate dal Cremlino, sono «totalmente ignari» delle immagini dei massacri compiuti dall’esercito in Ucraina, ma anche perché se le conoscessero «penserebbero che la Russia ha ragione di comportarsi così».
Infatti, aggiunge, «quando ci sono pressioni governative sulle opinioni, come oggi in Russia, aumentano le risposte “non sa, non risponde”, che in genere significa “risponderei, ma ho paura”. In questo caso no. Molte persone sembrano aver aderito convintamente alla versione diffusa dalla propaganda».
Dopo aver spiegato che «la recente stretta sui media ha praticamente eliminato l’informazione indipendente», Levinson aggiunge che le sanzioni non servono affatto a far sollevare i russi contro il governo, come sperano Usa e Ue: «Le sanzioni sono iniziate nel 2014, e non hanno mai spostato l’opinione di un singolo russo. Non c’è mai stato più del 15-20% degli intervistati che hanno ipotizzato fossero giuste, figuriamoci utili. E questo prima della guerra».
Le sanzioni hanno invece l’effetto opposto: «Ora le persone che ne subiscono le conseguenze si sentono ancora più vicine al governo. Pochi si dicono “preoccupati”, appena un terzo degli intervistati si sente toccato: i russi in genere pensano che le sanzioni siano segno di debolezza, e anche per questo, nel sondaggio, ne sminuiscono l’importanza».
Secondo il direttore del dipartimento socioculturale del Levada Center, inoltre, «se chiedi ai russi, e noi lo facciamo sempre, se si sentono liberi, rispondono di sì. Sanno che ci sono restrizioni, ma pensano “male non fare, paura non avere”. Sono fedeli al Presidente, dunque pensano di non avere nulla da temere, e che le restrizioni sono per gli altri, i cittadini infedeli. Che le meritano».
Non tutti i russi, in realtà, la pensano così. Il dissenso, anche se marginale, esiste anche in Russia, come già documentato su Tempi da Angelo Bonaguro. Esprimere il proprio dissenso rispetto al conflitto è difficile perché, come riporta l’inviata a Mosca di Repubblica, Rosalba Castelletti, «è vietata virtualmente ogni forma di protesta. Si finisce in carcere anche per un poster bianco, otto asterischi, un foglietto di carta con su scritto Dva Slova (Due parole) o una confezione di affettati della marca Miratorg a cui sono state cancellate le ultime cinque lettere per isolare la parola Mir (Pace). Ma i russi ci provano comunque».
A San Pietroburgo, ad esempio, «è nato il progetto “Malenkij Piket”, “Piccolo picchetto”, la protesta dei pupazzetti di plastilina o di pezza con in mano la bandiera ucraina o poster pacifisti. C’è chi ha ritagliato delle figurine di carta posizionandole tra i generi alimentari o incollandole sui bancomat. Altri hanno scritto messaggi su banconote e monete. Gli attivisti di Kazan sono stati persino più originali. Hanno sostituito i cartellini dei prezzi nei supermercati con etichette pressoché identiche se non fosse che il costo dei prodotti è stato inglobato in testi sul bilancio delle vittime dei raid o sulle violazioni delle norme umanitarie internazionali. E poi c’è l’organizzazione Vesna (Primavera) che invita tutti a distribuire volantini nelle buche delle lettere, piazzare adesivi o disegnare graffiti».
Anche i cristiani, pur in una situazione di difficoltà, offrono il loro contributo in Russia, come dichiarato alla Verità dall’arcivescovo cattolico di Mosca, monsignor Paolo Pezzi: «Il contributo originale dei cristiani è essere una presenza costruttiva di rapporti nella società, essere portatori di speranza, essere come fiammelle nel buio. Una fiammella per quanto piccola accende tutta la notte in cui ci troviamo».
Continua l’arcivescovo:
«Il messaggio che diffondo dal 24 febbraio [data d’inizio della guerra, ndr] è di rischiare sul perdono, cioè sulla possibilità di guardare l’altro non come un potenziale nemico, ma come amico. (…) Mentre alcuni cercano di avere nemici più che di essere amici, mentre tanti cercano il proprio utile a discapito di altri, chi guarda le stelle delle promesse, chi segue le vie di Dio non può essere contro qualcuno, ma per tutti. Non può giustificare alcuna forma di imposizione, oppressione e prevaricazione, non può atteggiarsi in modo aggressivo».
Foto Ansa
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