Un “presunto colpevole” e un magistrato uniti nel dolore per la morte del giusto processo
Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Mario Rossetti è un manager, Piero Tony è un magistrato in pensione. Non hanno nulla in comune, se non il fatto di condividere con straordinaria sintonia il giudizio sulla situazione della giustizia in Italia. Giovedì 2 luglio si trovavano entrambi nella provincia monzese (Carate Brianza) all’incontro organizzato dalla fondazione “Costruiamo il futuro” di Maurizio Lupi per presentare i propri libri: Io non avevo l’avvocato (Mondadori) e Io non posso tacere (Einaudi). Fatto singolare, i tre relatori – oltre a loro c’era Sergio Luciano, co-autore di Rossetti – si intendevano su tutto, tanto che Tony ha buttato lì la battuta più bella della serata: «Non c’eravamo mai visti prima, eppure siamo d’accordo su ogni cosa. Un pm non crederebbe mai che non abbiamo concordato prima le nostre versioni».
23 febbraio 2010, Milano. Alle cinque di mattina la Guardia di Finanza si presenta a casa di Mario Rossetti, ad di Cobra At, e lo arresta. Il capo d’imputazione è associazione a delinquere transnazionale. Gli consegnano l’ordinanza di 1.700 pagine dove dovrebbe essere spiegato perché lo arrestano, perché lo strappano alla sua famiglia, perché lo portano nel carcere di San Vittore imponendogli cinque giorni di isolamento giudiziario. Dovrebbe, ma nei fogli che Rossetti compulsa nervosamente non c’è il suo nome. Mai. In 1.700 pagine il suo nome non compare. Capisce solo che l’accusa c’entra qualcosa con la sua precedente occupazione in Fastweb, azienda che nel 1999 contribuì a fondare, e in cui non lavora più da anni. Assieme a lui sono coinvolti altri manager dell’azienda, tra cui l’ad Silvio Scaglia, che dall’estero si precipiterà con un volo privato per chiarire tutto e finirà in gattabuia senza troppi complimenti.
[pubblicita_articolo]«Perché mi arrestano?», si chiede Rossetti. Cinque anni dopo, quattro mesi in carcere e otto ai domiciliari, lo sputtanamento mediatico, il sequestro dei beni, centoquarantasette udienze, la risposta è: «Non lo so. Non ho ancora capito». È la risposta più assurda e, al tempo stesso, la più adeguata che si possa dare. «Quando sono arrivato quella sera a San Vittore – ha raccontato al convegno – ho visto su una televisione del carcere il Tg2 che dava come prima notizia l’arresto di 56 persone per il “caso Fastweb”. L’allora procuratore antimafia Piero Grasso parlava di una “delle più grandi truffe mai scoperte”. È stato in quel momento che ho capito che l’inchiesta era ormai mediatica. È stato in quel momento che ho compreso, scusate la parola, di essere fottuto».
Per Rossetti si aprono le porte della cella 326, collocata nel sesto raggio – il più duro – di San Vittore. «Amo correre e passavo spesso accanto alle mura del penitenziario. Vedevo la gente in fila davanti ai portoni e proseguivo sulla mia strada. Ora, dopo tutto quel che mi è capitato, non posso più fare così».
Le prediche dei giornali
Quel che è successo a Rossetti potrebbe capitare a chiunque? Sì, potrebbe capitare a chiunque, e qui sta l’interesse della sua testimonianza. Perché tutti i vari gironi infernali che ha dovuto attraversare potrebbero essere attraversati da chiunque altro. E qui sta la tragedia del sistema giudiziario italiano, dove si è “colpevoli fino a prova contraria”.
Rossetti era stato interrogato tre anni prima di quel 23 febbraio in seguito a un’inchiesta su Fastweb. Alla presenza dei pm Francesca Passaniti e Giovanni Di Leo aveva risposto alle domande, sorprendendosi per la scarsa competenza dei suoi interlocutori («La Passaniti mi chiede di fare lo spelling: “Comitato di… mi dice come si scrive?”. Ma come fai a fare un’indagine su una società quotata in Borsa, se non sai nemmeno cos’è un comitato di audit?»). La sua posizione sarà archiviata, il suo nome nemmeno menzionato nelle 2.754 pagine del rapporto conclusivo della Finanza, eppure, tre anni dopo, con le stesse carte e gli stessi elementi, il pm, grazie a un gip della sessione feriale, otterrà l’arresto.
Niente dice che Rossetti sia implicato, eppure finisce dietro le sbarre. Non ci sono nemmeno gli elementi per la custodia cautelare (rischio di reiterazione reato, di inquinamento delle prove o di fuga), eppure Rossetti è sbattuto al fresco. È l’Italia: c’è un codice di procedura penale in cui sono messe nero su bianco precise garanzie a tutela dell’indagato e poi c’è un codice “materiale” che è quello che si applica nei confronti dei sospettati. Ti mandano in galera col doppio scopo di «farti pressione per costringerti a confessare e patteggiare» e «farti scontare una pena a cui altrimenti la lentezza del sistema giustizia spesso non arriva a causa delle prescrizioni».
A peggiorare il tutto ci pensano i media che spacciano per “inchieste giornalistiche” le soffiate delle procure, riempiono le pagine dei giornali con copia e incolla di ordinanze e intercettazioni, discettano della moralità degli indagati. Quando i manager di Fastweb finiscono in carcere, Sergio Rizzo nel suo editoriale sul Corriere della Sera scrive che «le persone perbene hanno sempre più difficoltà a riconoscersi in questa Italia».
Il resto della storia di Rossetti è un labirinto di Dedalo, con i mesi passati in cella, poi ai domiciliari («un carcere per la tua famiglia»), il sequestro dei beni e dei conti correnti con la conseguente e umiliante necessità di dover elemosinare un aiuto fra amici e parenti (e per fortuna di Rossetti, lui ne ha avuti di straordinari) per poter mangiare un piatto di minestra. Il 15 febbraio 2013 la procura ha chiesto la condanna a sette anni di reclusione. Il 17 ottobre Rossetti è stato assolto per non aver commesso il fatto. Il 6 novembre la procura della Repubblica di Roma ha presentato appello. Ad oggi, non tutti i beni patrimoniali sequestrati dallo Stato gli sono stati restituiti.
Quando Rossetti ha terminato di raccontare la sua vicenda al convegno, Tony ha confermato che tutto quanto era accaduto al malcapitato è l’esatta descrizione di quel che è oggi la giustizia in Italia: «Dopo 45 anni in magistratura, dico che in Italia non esiste il processo, ma solo una prassi più o meno sapiente delle misure cautelari. È triste dirlo, ma è così. E continuerà ad essere così finché non cambierà qualcosa».
Contro la “gogna”
Il libro di Tony è il tentativo, forse estremo, di fermare lo tsunami. È un libro bomba per la chiarezza e la nettezza con cui ripercorre i mali del nostro sistema. Nato dopo un dialogo con l’attuale direttore del Foglio Claudio Cerasa, Io non posso tacere è, a suo modo, «un atto d’amore» verso la professione del magistrato: quel che dovrebbe essere, e quel che invece è diventata. Lo ha scritto un «magistrato certificato e autocertificato di sinistra», che nel 1996, da procuratore generale, in base alle prove che aveva in mano e non alle sensazioni che gli tambureggiavano in testa, chiese l’assoluzione per Pietro Pacciani, il Mostro di Firenze.
Oggi, di fronte all’abuso della carcerazione preventiva, la discrezionalità dei pm, la politicizzazione delle correnti, il giacobinismo di certe procure, i “processi gogna”, Piero Tony ha deciso che non poteva più stare zitto. E così ha scritto un libro per mettere «nero su bianco» quello in cui crede. Ci fossero più Tony e meno casi Rossetti, potremmo pure fare a meno di quella riforma della giustizia che ci promettono da vent’anni.
Foto tribunale: Ansa
Foto conferenza: Fondazione Costruiamo il futuro
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2 commenti
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Tutto questo fa risaltare ancora meglio l’inadeguatezza, la pochezza e l’impalpabilità della cosiddetta riforma del governo Renzi. La magistratura, o meglio il “partito dei magistrati” come dice Mauro Mellini, è il problema dei problemi
So che dico un’enormità, ma questo basta perchè, chi sa fare e può, se ne vada da questo paese che, spiace dirlo, non offre prospettive reali di cambiamento
Beh, ci sarà adesso il solito troll che giustificherà il tutto come “danno collaterale” o “compagni che sbagliano”. Più o meno come la ghigliottina ex Rivoluzione Francese o le Brigate Rosse ex Manifesto del Partito Comunista.