Predicare il green pass e obbligare al tampone
«Se il green pass è così decisivo, perché ci avete fatto il tampone qui a palazzo Chigi e non ci avete fatto salire direttamente?». Il siparietto, riportato en passant dai giornali, vede i leader sindacali Landini, Sbarra e Bombardieri presentarsi da Draghi per discutere di certificato verde sul lavoro («per introdurre l’obbligo vaccinale e il green pass obbligatorio serve una legge. Se ci fosse una legge, questa non dovrà comunque portare a licenziamenti nei luoghi di lavoro né essere discriminatoria con demansionamenti») e, green pass alla mano, finire tamponati.
Tanto zelo sul green pass e poi il tampone?
Non è la prima volta che accade al cospetto di Draghi (che pare avere ammesso che la domanda dei sindacalisti era pertinente): per partecipare all’ormai celebre conferenza stampa del 22 luglio – col premier che tuona «non ti vaccini, ti ammali, muori» e afferma che il green pass è «una misura con cui gli italiani possono continuare a divertirsi, ad andare al ristorante e a spettacoli all’aperto e al chiuso, con la garanzia di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose» – i giornalisti muniti di green pass sono stati obbligati a fare il tampone.
Lo abbiamo scritto e riscritto, non è intelligente, automatico, necessario e nemmeno efficace al fine di risolvere il “problema Covid” condizionare alcuni «diritti fondamentali» come quello alla scuola e al lavoro al green pass (qui abbiamo elencato tutte le ragioni). Non lo è indurre la gente a una “falsa sicurezza” e ad abbassare la guardia, spacciando fake news (vedi Draghi, vedi Biden) o terrorismo (vedi esperti, vedi giornali) e ricatti: chi non si vaccina muore e se non muore si becca la Dad o viene licenziato. E che mossa sarebbe quella di iniziare la conversione in aula del decreto legge che introduce l’obbligo del green pass dal 6 agosto chiedendo un tampone a chi ce l’ha già?
La versione di Ichino e del Garante
Per ora si sa che il certificato sarà condizione necessaria per sedere ai tavoli di bar e ristoranti al chiuso e accedere a cinema, teatri, palestre, piscine, centri termali, fiere, congressi, spettacoli anche all’aperto, eventi sportivi, bingo e sale giochi. Ma la discussione è aperta sullo spinosissimo dossier scuola, i trasporti a lunga percorrenza e soprattutto i luoghi di lavoro. Pietro Ichino, giuslavorista, ex parlamentare e sindacalista, insiste nel dare ragione a Confindustria che chiede al governo che solo i dipendenti vaccinati possano avere accesso al lavoro, anzi: auspica che gli imprenditori ne condizionino l’accesso senza attendere un provvedimento legislativo «in forza dell’articolo 2087 del Codice civile, oltre che degli articoli 15 e 20 del Testo Unico per la sicurezza nei luoghi di lavoro (d.lgs. n. 81/2008)». Norme che supererebbero il veto del Garante della Privacy a richiedere l’esibizione del certificato di vaccinazioni e del green pass: «il diritto alla riservatezza è un diritto eminentemente disponibile: per esempio, ognuno è libero di disporre del proprio diritto all’immagine, o al riserbo sulle proprie vicende personali. Allo stesso modo, anche senza una legge che obblighi a vaccinarsi, ognuno è libero di stipulare un contratto che preveda questo obbligo».
Fino ad oggi i Tar hanno di base riconosciuto la legittimità della maggior parte dei provvedimenti di sospensione di lavoratori non vaccinati, casi ancora rari e che si scontrano comunque col divieto per i datori di lavoro di “indagare” chi tra i propri dipendenti abbia aderito alla campagna vaccinale o meno e di sostituire il medico competente nello stabilire se questo esponga al contagio i colleghi. D’altra parte sarebbe curioso vietare l’accesso a un bar o un ristorante a un cliente privo di green pass se camerieri o dipendenti che ci lavorano non sono vaccinati.
Luoghi sicuri (e deserti)
I dubbi sulle ragioni pratiche, operative (relative ai controlli di ogni singolo qr code e per molti anche solo ad ottenerne uno), sanitarie, legali si moltiplicano dunque alla luce del tramonto della retorica del vaccino “per proteggere il prossimo”. E con essi (ora che sappiamo che prevenire la malattia e prevenire l’infezione sono due cose diverse, che il vaccino purtroppo non impedisce i contagi), le domande sull’utilità di restringere l’accesso a luoghi e servizi invitando al contempo a “convivere col virus”. «Sul piano economico, poi, le ragioni sono ancora più labili: se l’intento fosse stato quello di rendere più sicuri e quindi praticabili turismo, ristorazione, sport eccetera, l’effetto psicologico (probabilmente acuito dalla crescita dei contagi) è stato quello di provocare disdette, e stando alle proteste di vaccinatissimi esercenti i danni paiono gravi», ricorda La Verità.
Il direttore del Museo si dimette
Ieri Fabrizio Masucci si è dimesso da direttore del Museo Cappella Sansevero di Napoli. Lo ha fatto dopo dieci anni e mezzo alla guida di un luogo che accoglie insuperabili capolavori di scultura come il Cristo velato del Sammartino. ripercorrendo in una lunga lettera aperta le misure adottate per l’emergenza sanitaria: capienza ridotta di due terzi, temperature, mascherine, distanziamento, varchi per ingresso e uscita distinti, percorsi unidirezionali, pianificazione accessi, sanificazioni eccetera.
«L’Autorità ha determinato che l’adozione di tali misure di sicurezza nei musei è compatibile con l’apertura al pubblico. Devo ritenere che, oltre che per ragionamenti di buon senso (…) tale decisione sia stata presa e venga mantenuta in vigore anche sulla base di rilevazioni statistiche e ricerche scientifiche, che giungono alla conclusione che di tutti i principali luoghi al chiuso aperti al pubblico (…) i musei sono quelli in cui sussiste il minore rischio di contagio. Alla luce di tali evidenze, constatate dal decisore politico che ha ritenuto e ritiene tuttora di poter tenere aperti i musei, l’obbligo di richiedere l’esibizione del green pass per l’accesso ai musei non è legato a valutazioni di carattere epidemiologico specificamente riferite ai contesti museali, ma è stato considerato esclusivamente uno strumento utile, fra tantissimi altri, allo scopo dichiarato – in sede di conferenza stampa di presentazione, lo scorso 22 luglio, del DL n. 105 – di ottenere più numerose adesioni alla campagna vaccinale».
Un museo non è Confindustria o Palazzo Chigi
Masucci non è un no vax, tutt’altro. Ma non ci sta ad avallare una decisione politica che “strumentalizza” il museo per finalità estranee e che compromettono la sua missione: favorire la coesione sociale e l’accesso paritario ad arte e cultura. Masucci tocca due tasti importanti: l’assenza di “ragioni sanitarie” che dovrebbero giustificare una disparità di trattamento dei visitatori e l’arruolamento dei luoghi della cultura nell’introduzione surrettizia dell’obbligo vaccinale, obbligando un museo a «rinunciare alla parità di trattamenti per motivi che non posso che essere recepiti come strumentali», «Spero che questa decisione venga intesa, qual è, come un semplice gesto di coerenza del mio giudizio e del mio sentire». Un museo non è Confindustria. Ma nemmeno un palazzo che arruola luoghi di lavoro, istruzione e cultura nella giusta causa vaccinale e non è capace di un gesto di coerenza se si tratta di riporre i tamponi.
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