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La società dei segni senza senso

Il politicamente corretto che tende a incasellare tutto all’interno di categorie stereotipate è figlio di una concezione “sofista” del mondo, dove non c’è realtà, ma solo significanti slegati dal loro significato. Un’anticamera dell’incuria che porta a nuove forme di disprezzo

Gabriele Civello
14/05/2021 - 15:50
Magazine
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Pupazzo di uomo vitruviano in fiamme durante una Fridays for Future
Un uomo vitruviano pupazzo dato simbolicamente alle fiamme durante una manifestazione di Fridays for Future a Milano (foto Ansa)

Secondo George Orwell, il decadimento del linguaggio sarebbe conseguenza del declino politico, economico e culturale della nostra civiltà (Politics and the English Language, 1946); difficile dargli torto, ancor più a fronte dei casi esemplari dallo stesso addotti: l’utilizzo superfluo di parole straniere, la ridondanza di sinonimi, l’abuso di perifrasi e, ancor più, la trasformazione di concetti chiarissimi – ma politicamente “scomodi” – in corrispondenti giri di parole eufemistici apparentemente più garbati, ma in verità ricchi di ipocrisia.

Si tratta, a ben vedere, di una sorta di geniale profezia del politicamente corretto, che si sarebbe fatto strada progressivamente all’interno della civiltà occidentale sino a divenire oggi, dopo oltre settant’anni dalla morte del pensatore inglese, un fenomeno globale apparentemente inarrestabile.

Il politically correct può essere definito come una prassi sociale – una nuova forma di conformismo, da taluni definito persino come una religione politica – nata soprattutto nei paesi anglosassoni e poi scandinavi, che comporta la modificazione o la soppressione di determinate espressioni linguistiche con nuove locuzioni o perifrasi “edulcorate”; ciò al fine di evitare che i preesistenti modi di dire possano ferire o persino intimidire determinate classi di soggetti, individuate per orientamento sessuale, status di salute fisica o mentale, opinione religiosa o filosofica, provenienza etnica o geografica, appartenenza sociale, economica, sindacale o politica, e così via.

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Celeberrimi, ad esempio, i casi di sostituzione della parola invalido con disabile e, poi, diversamente abile; cieco con non vedente; nero con persona di colore oppure afroamericano; spazzìno con operatore ecologico, eccetera.

Tra i vari fattori che hanno condotto alla nascita e allo sviluppo del politicamente corretto, oltre a quelli socio-politici ed economici (come l’emersione di una élite neo-progressista, cosmopolita, anti-occidentale e oicofobica), vi è senza dubbio un epocale fenomeno di natura semiotica, ossia una inedita sopraffazione dei contenuti da parte della forma, e dei significati da parte dei significanti (J. Friedman, Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime, Meltemi, 2018).

Se per la tradizione classica le parole non sono puri flatus vocis, ma rappresentano una forma di segno ancillare rispetto agli “enti reali”, la modernità e soprattutto la cosiddetta “postmodernità” sono epoche nelle quali tale equilibrio ultrabimillenario si sta sfaldando rapidamente.

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A tal proposito, la strenua battaglia dell’uomo di oggi contro il realismo filosofico sta comportando un effetto collaterale dirompente: il verbo, la parola, il logos, non sono più puri strumenti e mezzi per un fine che li trascenda, vale a dire la significazione di una realtà che è sì indicata dalla parola, ma non si identifica col segno stesso; al giorno d’oggi, la parola come “segno” tende sempre più ad assumere una sorta di statuto ontologico autonomo, come se il significante stesso potesse fare a meno della realtà oggettiva significata (R. Huges, La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto, Adelphi, 1994).

«Altro è il nome»

Per cercare di comprendere il predetto fenomeno linguistico della contemporaneità, appare quanto mai prezioso risalire alle fonti del pensiero occidentale, osservando come i filosofi della antichità avessero già in gran parte intuito molte delle questioni che, millenni dopo, sarebbero state messe a tema dalla scienza semiotica e linguistica contemporanea.

In particolare, nel meraviglioso Cratilo di Platone, a fronte della tesi di Ermogene secondo cui i nomi sarebbero il frutto del puro accordo e della convenzione sociale, Socrate dimostra che i segni linguistici hanno necessariamente un qualche legame naturale con le cose da essi significate, e in particolare con il loro eidos, la forma, essenza e idea universale.

Si pone, dunque, già in Platone il problema dei rapporti tra significante e significato, tra segno e cose del mondo, in una prospettiva squisitamente realistica, avente cioè a proprio fulcro la res oggettiva, e non già un “io” puramente soggettivo: «Altro è il nome, altro è invece ciò di cui esso è nome», afferma perentoriamente Socrate (430a), non senza precisare di lì a breve che il modo migliore per conoscere le cose è quello diretto, senza cioè il ricorso a quelle entità linguistiche chiamate “nomi” (439b).

Il De interpretatione di Aristotele, seguito poi dal De magistro di Sant’Agostino, è un altro importante snodo nello sviluppo di una teoria linguistica di matrice realistica.

La svolta linguistica

In essa, lo Stagirita individua quattro piani teorici: le cose reali (pràgmata); le immagini che di esse l’uomo si fa nel pensiero sotto forma di “affezioni” (patémata); i suoni (phonai) che sono lo specchio dei pensieri, cioè le parole dette o parlate; infine, le parole scritte (graphòmena), segno grafico delle parole “sonore”.

Per Aristotele, le sostanze prime sono gli enti individuali o cose reali; via via che ci si allontana da esse, giungendo ai pensieri, alle parole fonetiche e alle parole grafiche, ci si allontana progressivamente dalla realtà oggettiva e naturale, per approdare al piano logico-linguistico, decisamente subordinato alla prima.

Ancora: anche per Aristotele, come per Platone, «il falso e il vero hanno a che fare con la connessione e la divisione» (16a 12-13): se il discorso congiunge cose che nella realtà sono congiunte, o separa cose che nella realtà sono effettivamente separate, allora esso è vero; se, invece, esso congiunge ciò che è realmente disgiunto, o disgiunge ciò che è realmente congiunto, allora esso diviene falso.

Il pensiero moderno e soprattutto quello contemporaneo, a ben vedere, disarticolano progressivamente il nesso tra segno linguistico e realtà oggettiva, tra significante e significato, portando a estremo compimento i pregiudizi ideologici dell’antica sofistica greca e del nominalismo medievale.

In particolare, la filosofia novecentesca è caratterizzata da quella che è stata definita la “svolta linguistica”: per Martin Heidegger (1889-1976), il linguaggio è la casa dell’essere (Lettera sull’«umanismo»), quando invece per oltre duemila anni si era pensato l’esatto contrario, vale a dire che l’essere è la casa del linguaggio, nel senso che ogni segno non è mai, assurdamente, “segno a se stesso”, ma è sempre segno di un previo ente, pieno di “essere”.

Per la cosiddetta “filosofia analitica” anglo-americana, i più scottanti problemi filosofici non sarebbero altro che altrettanti quesiti di natura puramente linguistica; e di converso, tutto ciò che non sia suscettibile di essere espresso attraverso proposizioni linguistiche non avrebbe alcuna dignità ontologica, tanto che la maggior parte dei concetti tradizionali del pensiero occidentale come “Dio”, “vero, “bene”, “bello”, “giusto”, non sarebbero che giochi linguistici privi di contenuto reale, in quanto soggetti a dispute o contraddizioni ritenuti come insanabili.

Populista, razzista, sessista

Per la “grammatologia” di Jacques Derrida (1930-2004), se il kantismo aveva sostituito la cosa in sé (presunta come inconoscibile) con gli schemi concettuali della conoscenza umana, si rende ora necessario smantellare gli stessi “concetti”, mostrando che la vera “sostanza prima” è la scrittura o, meglio, la traccia, il segno. In Derrida, la vera realtà originaria non sarebbe nemmeno più la parola scritta (come tale logo-centrica, ego-centrica ed etno-centrica), bensì il puro gesto, il segno non costituito da lettere, la mera “traccia”, che diviene così il vero nuovo “trascendentale” della grammatologia contemporanea, al posto della tradizionale serie “ens, res, aliquid, unum, verum, bonum”.

«Bisogna pensare la traccia prima dell’ente», afferma l’autore della Grammatologia (II.2), quasi a dire – parafrasando Heidegger – che il segno è la casa dell’essere.

Il fenomeno del “politicamente corretto”, a ben vedere, rappresenta l’estremo esito del menzionato percorso ideologico: una volta affermato che la parola dell’uomo è dotata di una propria autonomia ontologica rispetto alle cose reali del mondo, il politicamente corretto diviene una conseguenza pressoché necessaria e inevitabile.

Se ciò che conta non sono più gli enti reali, nella loro sostanzialità oggettiva, bensì le parole dell’uomo quali puri “segni”, da ciò deriva l’attenzione quasi maniacale verso gli strumenti di trasmissione delle idee, prima ancora che verso i contenuti delle stesse; e la verità del pensiero non si misura più nella corrispondenza o difformità dello stesso rispetto alla realtà, quanto nel grado di approvazione o disapprovazione sociale di una determinata linea ideologica.

In tal modo, la società del politicamente corretto non è più interessata ai contenuti razionali del nostro pensiero, ma è subito pronta a incasellare – con il tipico argumentum ad hominem – la nostra persona all’interno di categorie stereotipate come il progressista, il razzista, il passatista, il populista, il sessista, il sovranista, il maschilista, il reazionario, senza più alcuna onesta attenzione verso l’intrinseca razionalità o irrazionalità di un determinato contenuto di pensiero.

Probabilmente, il più efficace rimedio alla deriva del politically correct consiste in un rinnovato rapporto tra parole, pensieri e cose del mondo: se il politicamente corretto appare come l’estremo esito di un percorso ideologico teso a smembrare il nesso ontologico tra la realtà concreta del mondo, i pensieri dell’uomo e le rappresentazioni linguistiche e poi grafiche degli stessi, probabilmente il primo farmaco contro tale deriva è costituito dalla riscoperta dell’intimo legame razionale che incardina la parola al pensiero, e il pensiero alla realtà.

Apparente “silenzio sociale”

Non è detto che l’indifferentismo valoriale generi una vera pace sociale, come intende invece affermare un certo irenismo neutralista; anzi, l’esperienza concreta sembra dimostrare l’esatto contrario, e cioè che il neutralismo può, tutt’al più, creare situazioni di apparente “silenzio sociale”, il quale però è solo una effimera crosta sotto la quale continuano inevitabilmente a ribollire proprio quelle differenze e quelle alterità che il protocollo convenzionale si proponeva, per l’appunto, di occultare, senza evidentemente potervi riuscire.

A ben vedere, il rispetto reciproco fra le persone, le culture, le religioni e le nazioni richiede necessariamente uno studio razionale della realtà e un profondo spirito di carità e di sacrificio, il quale deve essere continuo e ininterrotto, poiché altrettanto continua e ininterrotta è l’evoluzione dei tempi e dei popoli; viceversa, il politicamente corretto rappresenta una forma di riduzionismo paradossale il quale, sorto al fine di aumentare il rispetto e la tolleranza fra le persone, sembra condurre a forme ancora più spietate di indifferenza, la quale è anticamera dell’incuria e di sempre nuove forme di disprezzo.

* * *

Gabriele Civello, autore di questo articolo, è avvocato e docente di Diritto penale all’Università di Padova

Tags: antirazzismoPoliticamente Correttorazzismotempi maggio 2021
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