
Pizzaballa a Gaza: «Tutto è distrutto, ma la comunità cristiana riesce a vivere»

«Sono entrato a Gaza tante volte in questi anni: due o tre volte all’anno, si andava per Natale e d’estate in diverse occasioni. Questa volta, entrando, il primo impatto è stato immediato: era difficile capire dove ti trovavi, tutto era distrutto, le strade non erano più le stesse, si doveva fare lo slalom fra le rovine, era molto difficile distinguere i luoghi con i quali avevo una certa familiarità, erano irriconoscibili. Una cosa così credo di averla vista solo nel 2015 ad Aleppo. La distruzione è questo: un impatto immediato, che ti lascia senza parole. Anche quelli che erano con me erano impressionati, abbiamo fatto la strada in silenzio, su auto scassate, tra mucchi di rovine e immondizia. Sono andato lì non solo per vedere cosa si poteva fare dal punto di vista degli aiuti umanitari, ma come pastore: è necessaria una presenza. Certo bisogna fare, non solo aspettare che la guerra finisca, fare non solo per la nostra comunità cristiana».
Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei latini, racconta così ad alcuni giornalisti e amici la sua esperienza a Gaza. «Non è una conferenza stampa», ci ha detto subito, piuttosto un incontro per condividere quello che ho visto.

«Hanno perso tutto»
E quello che ha visto è una piccola comunità cristiana, cattolici e ortodossi che vivono insieme, cucinando una volta al giorno su grandi pentoloni il poco cibo che riescono a trovare. Il fuoco viene acceso con la legna: «Di legna ce ne è tanta perché i combattimenti hanno distrutto mobili e infissi». La scuola cattolica, il compound ortodosso, il convento delle suore sono stati trasformati in grandi magazzini dove è stipato tutto quello che può essere utile. «Non c’è nemmeno un angolo libero e, ovviamente, pochissima privacy, le famiglie dormono nelle aule. Ho trovato una comunità stanca dopo sette mesi di vita in condizioni molto fragili, molto povere, manca tutto, hanno perso tutto, a cominciare dalle loro case e dal lavoro».
Il cardinale è sorpreso dalla capacità di resilienza («oggi è una parola molto usata, ma lì si capisce davvero») dei suoi fedeli. «Pure se stanchi, li ho trovati molto organizzati, come fossero tornati ai tempi delle prime comunità». Pizzaballa sembra pensare al racconto degli Atti degli apostoli, quando i discepoli organizzarono la comunità dei credenti che era «un cuor solo e un’anima sola».
«Fanno da mangiare per tutti, lo stesso cibo per tutti. C’è un comitato per il cibo e uno per le pulizie. Nonostante tutto, al di là della stanchezza, non sono rinunciatari, guardano al futuro e sono preoccupati per i bambini, per la scuola. Non ho sentito una parola di risentimento, di rancore, nulla di tutto questo. Mi ha colpito, oltre al desiderio di tutti che la guerra finisca, sentire dai giovani ma anche dagli anziani, non in maniera coordinata, ma parlando spontaneamente con loro, uno per uno, il fatto che ripetessero: “Noi non abbiamo la violenza nel sangue, non riusciamo a capire tutto questo”. È Il segno che la comunità è riuscita a vivere, pur in quella situazione. Con l’Ordine di Malta abbiamo cercato di organizzare quello che si può fare, individuare i beni di prima necessità, perché qualcosa ora arriva, ma il problema è la distribuzione. Bisogna organizzarla nel modo più ordinato possibile. Poi la sanità: in tutto il Nord di Gaza c’è solo un ospedale operativo, che non è sufficiente».

Cresima tra le macerie
«I cristiani vivono insieme, condividono tutto, sono aperti e danno ospitalità a fedeli musulmani, questo ecumenismo della sofferenza è un messaggio per tutta la Chiesa?», gli chiedo. «I cattolici latini a Gaza», risponde, «erano circa 140 su 700, gli altri erano ortodossi. Ora, in tutto, ne sono rimasti 500, ma nessuno chiede chi è latino, chi è greco, non solo in Gaza, ovunque in questa terra, lo possono confermare i vescovi che sono qui. Spero che questo modello possa diventare comune in altre parti, nella vita della Chiesa. Noi non siamo solo una Chiesa che dovrebbe ricevere aiuto per la gente di Gaza, noi possiamo dare agli altri, questo è il punto».
«Io posso parlare ora solo di quello che ho visto», continua. «Non ho la visione di tutta la Striscia, posso dire che al Nord, rispetto al periodo prima di Natale, la situazione è migliorata, questo va detto. Il che non vuole dire che è buona. Certo, manca cibo fresco, poche vitamine, la popolazione ne risente. Ho visto assembramenti dove c’era la distribuzione dell’acqua e del cibo. Credo che il problema principale ora sia una corretta distribuzione sul territorio».
Il cardinale ha amministrato la Cresima a tre bambini: «Un segno bello, la comunità era contenta, si è capaci di gioire anche delle cose più semplici, delle cose essenziali, non c’è spazio per gli orpelli».
Il futuro non lo conosce nessuno, ma una cosa è evidente: «La popolazione sarà totalmente dipendente da fuori, l’aspetto dell’aiuto umanitario è essenziale, non soltanto per il cibo, ma bisogna pensare a tutti gli aspetti della vita sociale. Come? Con chi? Credo che dovrà essere una preoccupazione della cosiddetta comunità internazionale, anche se francamente non ho mai capito chi sia la comunità internazionale… però sarà necessario, per avere un coordinamento nel territorio. Adesso c’è una disponibilità umanitaria, ma poi bisogna pensare alla ricostruzione. Sono tante le questioni rimaste sospese, ma in questo momento non c’è lo spazio per parlarne: la prima cosa è cessare le ostilità».
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