Pubblichiamo la rubrica di Maurizio Tortorella contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Piero Tony, nato a Zara 74 anni fa ma vissuto a Napoli in gioventù, ne parla come di un «tricche-tracche»: un mortaretto «da lanciare in piccionaia». In realtà il suo libro Io non posso tacere (Einaudi, 125 pagine, 16 euro, scritto con il direttore del Foglio Claudio Cerasa e uscito il 5 maggio) non è affatto un petardo. È una bomba atomica.
Per 45 anni, dal 1969 al luglio 2014, Tony ha fatto il magistrato. A Milano, a Venezia, poi alla procura generale di Firenze (dove nel febbraio 1996 passò alla storia la sua richiesta di assoluzione per Pietro Pacciani), quindi al tribunale dei minori di quella stessa città. Dichiaratamente di sinistra, Tony nei primi anni Ottanta si è iscritto alla corrente più progressista, Magistratura democratica, e non ne è mai uscito. Dal 2006, per otto anni, Tony è stato procuratore a Prato. Avrebbe dovuto andare in pensione nel 2016, invece ha anticipato di 24 mesi: «Non ce la facevo più», dice. «Non potevo andare avanti in un mondo divenuto surreale, dove ogni giorno vedevo cose che non avrei mai voluto vedere».
Per questo il libro di Tony è una bomba: perché, da sinistra (molto a sinistra), e in nome del migliore garantismo, un autorevole ex magistrato si scaglia contro tutte le più viete parole d’ordine del peggiore populismo giudiziario.
Giocando con le vite degli altri
Il libro dovrebbe fare riflettere molti. Bastano poche frasi per farne comprendere l’impatto: «È ovvio che molti magistrati giochino spesso con i giornalisti amici per amplificare gli effetti del processo: purtroppo, quando un pm è politicizzato, può utilizzare questo strumento in maniera anomala. Funziona così, negarlo sarebbe ipocrisia».
Ancora? «Con la Legge Severino la politica ha delegato all’autorità giudiziaria il compito, anche retroattivamente, di decidere chi è candidabile e chi no a un’elezione». Continuiamo? «L’obbligatorietà dell’azione penale è una simpatica barzelletta». Non vi basta? «Spesso si sceglie di mandare in gattabuia qualcuno, evitando altre misure cautelari, per far sì che (l’indagato, ndr) paghi comunque e a prescindere».
La teoria più esplosiva è probabilmente quella del bignè. Leggiamo Tony: «Il dato di partenza è questo: l’eccessiva disinvoltura con cui le intercettazioni vengono inserite nei fascicoli è spesso indice della difficoltà con cui gli inquirenti gestiscono un’indagine. Ci sono poche prove, si hanno molte intercettazioni, quindi si riempiono con queste i fascicoli giudiziari e subito, quasi automaticamente, si affianca al processo ordinario quello mediatico, assecondato dal metodo del copia-incolla. Un metodo ormai collaudato che cattura l’attenzione dei giornalisti e rende appetibile un’indagine, proprio come un bignè. Funziona cosi: tu procuratore ricevi dodicimila pagine di intercettazioni, le inserisci integralmente nella richiesta di custodia cautelare, perché il copia-incolla è pure molto comodo, poi te le ritrovi nell’ordinanza del giudice per le indagini preliminari. Anche se alcune di queste intercettazioni non hanno alcun rilievo penale e coinvolgono la privacy di persone estranee sai perfettamente che grazie al metodo del copia-incolla rimarrà tutto lì: a ingrossare il fascicolo e a regalare qualche ottimo bignè ai giornalisti».
È la descrizione puntuale (e dall’interno del sistema) della gogna mediatico-giudiziaria. Per questo il libro di Tony è da leggere, da divorare. Per questo, temiamo, non ne troverete alcuna traccia sui grandi giornali. Soprattutto su alcuni…
Foto Ansa