“D‘ora in poi, grazie alla riforma Bindi, chi andrà in ospedale o in ambulatorio potrebbe rischiare di imbattersi in medici più attenti alla efficacia e appropriatezza di ciò che fanno; più aggiornati; meno frettolosi; che non hanno più incarichi a vita”. Così, in sintesi, con un documento diffuso nei giorni scorsi in Internet, Alessandro Liberati, direttore del Centro Cochrane italiano (la Cochrane Collaboration è un’organizzazione internazionale che raccoglie e coordina l’attività di ricerca sulle “revisioni sistematiche” delle sperimentazioni cliniche con l’obiettivo di raccogliere tutta l’evidenza disponibile sull’efficacia dei trattamenti e delle strategie di cura per assistere gli operatori sanitari nelle decisioni cliniche) ha espresso il suo appoggio alla riforma Bindi. Tra i medici il documento non è passato inosservato. Molti, anzi, dietro l’utilizzo della prestigiosa sigla hanno rilevato il rischio di una strumentalizzazione politica osservando che molti degli stessi aderenti alla Cochrane Collaboration non condividono affatto l’opinione del dottor Liberati. Il professor Giuseppe Mancia, ordinario di clinica medica all’Università degli studi Milano Bicocca e direttore del dipartimento di internistica dell’ospedale S. Gerardo di Monza, è uno dei maggiori esperti mondiali di ipertensione e malattie cardiovascolari, patologie che, per la loro incidenza, assorbono gran parte delle risorse del servizio sanitario nazionale.
Professor Mancia, cosa ne pensa della presa di posizione del dottor Liberati a nome dell’istituzione che dirige? Crede che sia condivisa dagli altri membri del Centro Cochrane italiano?
Da quanto ho potuto leggere, la mia opinione ripetto alla posizione espressa dalla fondazione Cochrane è negativa. Mi pare incredibile il giudizio che traspare sulla classe medica italiana, dipinta come ignorante dal punto di vista professionale: i medici non sanno, non si aggiornano, non leggono e sono privi di rispetto e di senso del dovere nei confronti del paziente. Sarebbero soltanto preoccupati di mantenere i propri privilegi e per questo resisterebbero alla riforma illuminata della Bindi. In più si nega qualsiasi valore di contenuto a opinioni diverse sulla riforma. Se fosse davvero così, sarebbe grottesco pensare che in una simile classe “mostro” basterebbero pochi tratti di penna per cambiare la situazione e approdare invece al paradiso sanitario. Questa dichiarazione ricorda più i campi di rieducazione che un tentativo di dialogo e comprensione, dove chi scrive si sente, evidentemente, nella parte del rieducatore che stabilisce cosa debbano fare i medici relegati al ruolo di impiegati-esecutori.
Appunto: si può ridurre la professione medica a un semplice atto esecutorio?
Senza dubbio la professione medica richiede conoscenze tecniche, ma non si può ridurre a questo perché implica anche una partecipazione da parte del medico. Presuppone un contenuto etico, morale e un processo diagnostico e di decisione terapeutica individuale: quando parliamo di “linee guida”, parliamo di raccomandazioni, altrimenti sarebbero “ordini”. Si tratta di suggerimenti, basati sulla evidenza scientifica e perciò assai utili: offrono una sintesi dei dati scientifici, un aggiornamento periodico e indicano campi dove non è neppure possibile dare linee guida perché manca l’evidenza scientifica. Ma non possono venir concepite in senso coercitivo: offrono dati medi, ricavati dai trial che non sono l’unica fonte di conoscenza. Riportano, infatti, i dati del paziente medio, di pazienti selezionati in maniera particolare, spesso molto lontani da quelli che il medico incontra nella pratica clinica per i quali, invece, si deve fare appello solo alla propria scienza e alla propria coscienza dopo un difficile processo di valutazione dei dati oggettivi, dell’ambiente in cui vive il paziente, di come reagirebbe a una terapia piuttosto che a un’altra. È un processo altamente individuale nel quale il medico mette tutto se stesso e che non può essere misconosciuto a favore dei grandi numeri statistici. Le linee guida trattano le malattie teoriche, il medico i malati in carne e ossa.
In base all’esperienza sul campo, quindi, è difficile condividere i giudizi di Liberati?
Quella italiana ritengo sia una buona classe medica, certo non peggiore di quella di altri paesi europei e degli Stati Uniti. Il medico italiano esce dall’università indubbiamente con una carenza di pratica, ma con buone basi teoriche e metodologiche che aiutano a progredire e colmare le proprie lacune negli anni successivi. Alla fine il medico italiano è perciò un buon terapeuta e diagnosta. Se poi lo paragoniamo al medico americano, il quale vive in ospedale a partire dal primo anno di studio e si forma subito sul malato, troviamo che quest’ultimo ha più pratica, ma lacune difficili da colmare per quanto riguarda l’insegnamento sistematico. Certamente si può aumentare la pratica, senza però sacrificare l’insegnamento sistematico che offre l’università italiana.
Cosa ne pensa del prossimo sciopero dei medici previsto per il 18 ottobre?
Premesso che è talmente complicata che non la capisco interamente, della legge Bindi ho un’opinione complessivamente negativa, perché ritengo ponga elementi coercitivi e dirigistici in contrasto con l’essenza della professione. Ritengo si debba favorire un aumento di assunzione di responsabilità, un miglioramento della pratica, dell’aggiornamento e dell’insegnamento, ma senza chiusure e arroccamenti. Credo che vi siano anche ragionevoli istanze di carattere economico da parte dei medici e che di fronte a certe scelte sia legittimo scioperare, tenuto salvo l’obbligo per il medico di porre l’ammalato in primo piano. Del resto gli scioperi dei medici non sono mai integrali: spesso i medici sono comunque in ospedale a coprire perlomeno le urgenze.