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Il fallimento culturale dietro alla rissa e alle molestie di Peschiera

Il rave party africano sfociato in guerriglia, la ragazzine molestate sul treno e il razzismo degli immigrati di seconda generazione. «Che cosa succede nelle loro famiglie? Bisogna chiederselo senza paura di passare per islamofobi», dice l’antropologa Maryan Ismail

Caterina Giojelli
09/06/2022 - 6:25
Interni
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Peschiera rissa molestie
Un frame tratto da un video pubblicato sul canale Telegram T.ME / CoprifuocoLive relativo alla maxi rissa e alle molestie avvenute a Peschiera del Garda

Un raduno sul lungolago chiamato “L’Africa a Peschiera del Garda” che diventa un rave party al grido “comanda l’Africa”, un invito virale su TikTok che riversa 2.500 persone sulla spiaggia, il sindaco di Castelnuovo che sente volare frasi quali «siamo venuti a riconquistare Peschiera. Questo è territorio nostro, l’Africa deve venire qui», una maxi-rissa, l’intervento della Celere, il lungolago a ferro e fuoco fino a Desenzano, turisti, residenti e commercianti in fuga. E poi il maledetto regionale 2640, diretto a Milano, dove un pugno di ragazzine tra i 16 e i 17 anni di ritorno da Gardaland «schiacciate nel convoglio da cui era impossibile uscire o chiedere aiuto», sono state palpeggiate, derise, intrappolate in una calca di ragazzi e caldo soffocante: «Dicevano “donne bianche, che ci fate qui, privilegiate”», «Mentre ci toccavano senza lasciarci scampo, ci urlavano “qui non vogliamo italiani”».

La guerriglia di Peschiera e quella delle responsabilità

Come è stato possibile arrivare a tanto? A questo non risponde nessuno. Alla guerriglia del 2 giugno a Peschiera del Garda è seguita quella delle responsabilità. Il governatore del Veneto Luca Zaia invoca pugno duro, «la parola chiave è repressione», il sindaco di Peschiera Orietta Gaiulli accusa il Viminale, «il 30 maggio ho avvisato prefetto e questore che le bande erano tornate», il procuratore reggente di Verona Bruno Francesco Bruni tuona «in tribunale non si fanno processi sociologici. Bisogna attribuire con assoluta certezza i singoli reati a chi li ha commessi», gli editorialisti si dividono tra “giustizialisti con gli alpini, garantisti con gli immigrati” e viceversa.

«Ma così non se ne esce. Dobbiamo prendere atto tutti di un fallimento: qualcosa non ha funzionato e non mi riferisco solo alla disastrosa gestione della giornata del 2 giugno: la contrapposizione tra benaltrismo di sinistra e securitarismo di destra non funziona, scantona il problema che ha portato dritto ai fatti di Peschiera», spiega a Tempi l’antropologa e mediatrice culturale Maryan Ismail. Musulmana sufi, storica rappresentante della comunità somala italiana, nata a Mogadiscio nel 1959 e scappata con la famiglia in Italia come rifugiata politica quarant’anni fa, quando Ismail ha letto il titolo del “raduno” convocato sul Garda è rimasta di sasso.

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Cosa non ha funzionato a Peschiera?

Probabilmente tutto. Chiamare un evento “L’Africa a Peschiera” esprime da solo un chiaro intento: come è stato autorizzato, con quale programma e finalità culturali? Stiamo parlando di un luogo pubblico, ci vogliono organizzazioni e autorizzazioni precise. Come è stato possibile non prevedere un assembramento di quelle dimensioni, soprattutto di questi tempi, e finire a sedare una guerriglia con gli agenti in assetto antisommossa? “Questa è l’Africa” non è uno slogan, è una grossa idiozia culturale che impone una risposta adeguata, un’enorme capacità di controllo e presenza sul territorio da parte delle forze dell’ordine. Non un intervento “in caso di emergenza”. Per intervenire bisogna essere capaci di dare una lettura culturale e solo il nome della manifestazione avrebbe dovuto far scattare il campanello d’allarme.

Di che lettura culturale parla? Le indagini della polizia in particolare sulle molestie subite dalle ragazzine in treno dicono che gli aggressori sono tutti italiani, immigrati di seconda generazione.

Vogliamo chiederci cosa succede in queste famiglie? Cosa è successo in questi due anni di chiusure, quando abbiamo serrato dietro le porte un’intera generazione, cosa si dicono a casa, i genitori sono al corrente di cosa stiano facendo i loro figli, hanno contezza dei reati perpetrati? Io credo che sia imperativo non fare sconti ai fatti di Peschiera, in termini di giustizia ma anche responsabilità collettiva: dobbiamo cercare di capire con tutte le nostre forze – e per “noi” intendo le nostre associazioni culturali, il non profit, istituzioni e amministrazioni –, cosa sta succedendo in queste famiglie, istituire tavoli specifici per andare a prevenire le conseguenze di una situazione che è stata certamente aggravata ed esasperata dai lockdown ma che non può dare il diritto a nessuno di uscire di matto fuori e dentro casa.

I magistrati veronesi non escludono l’aggravante dell’odio razziale.

Anche io vedo qui del razzismo dichiarato. Le dinamiche sono quelle: la ghettizzazione, il “noi e loro”, “questo treno non è per i bianchi”. È un linguaggio violento e da condannare, ma non possiamo limitarci all’etichetta: vogliamo chiederci perché i ragazzi hanno introiettato questo meccanismo? Qui c’è un primo problema, ci sono tutti i tipici segnali da banlieue e sappiamo tutti dove sfocia il giustificare la propria rabbia chiudendosi in se stessi e l’assunzione di atteggiamenti violenti, escludenti. Ma c’è anche un altro tema, che continua a riproporsi: quello del rapporto con il corpo delle donne. Lo schema non è stato quello della Taharrush Gamea di Capodanno (la formazione a “tre cerchi” della molestia collettiva usata anche dal branco di Milano: il primo cerchio addetto ad abusare della preda, il secondo a filmare e incitare l’abuso, il terzo cerchio a distrarre e distogliere l’attenzione da ciò che sta accadendo), ma l’assalto al corpo delle ragazze c’è stato. E questo non può farci bastare anche la seconda etichetta, “sessismo”: si tratta di un ennesimo campanello d’allarme che non può essere sottovalutato. Che significato e ruolo gioca la donna in queste famiglie, in queste seconde generazioni? Madri e figlie hanno un ruolo fondamentale nel cambiamento di una cultura maschiocentrica e patriarcale, l’inclusione reale dei giovani passa per l’inclusione di queste donne (moltissime incapaci di spiccicare una parola in italiano, con grande danno per gli stessi figli) in tutti i processi di emancipazione linguistica, sociale, lavorativa. Senza tralasciare, ovviamente, la possibilità di stimolare sempre nei padri una critica costruttiva dei modelli culturali di appartenenza che i loro figli, maschi e femmine, non riescono a conciliare con quelli condivisi a scuola, in società.

Nei fatti di Peschiera vede anche un fallimento educativo, una responsabilità della scuola?

Credo che nelle scuole sia ora imperativo approcciare l’argomento: la scuola è il veicolo di insegnamento del valore della persona ma ci vogliono insegnanti coraggiosi e pronti ad affrontare e fare emergere i pensieri dei ragazzi facendo loro domande anche dirette, “perché pensi che una donna sia meno di te?”. Non vedo il fallimento della scuola, ma di tutti, se non siamo riusciti a trasmettere l’uguaglianza nelle seconde generazioni. Dirò di più: credo che i fatti del 2 giugno vadano anche affrontati dal punto di vista della cultura di appartenenza. A Peschiera sventolavano bandiere marocchine e in Marocco la condizione femminile è stata dibattuta e regolata dalle leggi, non da ultima la legge sulla famiglia. Da cosa nasce allora la schizofrenia degli italiani di seconda generazione, lasciati a se stessi con un modello atavico e inapplicabile sia nel loro paese d’origine che in Italia? Manca un anello di comprensione: qui, dal punto di vista familiare, cosa viene trasmesso e tramandato? Non possiamo sentirci ricattati dalla paura di passare per islamofobi o razzisti. È una domanda seria, e la polarità, l’estremizzazione tra sinistra paternalista (accogliamoli tutti, sono buoni e poverini), e della destra securitaria (sono troppi e naturalmente delinquenti), non fa che allontanarla, affossare lo spazio di un reale cambiamento culturale.

Michela Marzano su Repubblica prima denuncia la “cultura dello stupro” al raduno degli alpini, poi invita a non sfruttare la violenza sulle donne di Peschiera per “diffondere altro odio”.

Queste sono letture mainstream, si paragonano situazioni diverse per non affrontare il problema in sé. Un mal di denti non lo curi come un mal di testa, un tumore non lo curi come un diabete. Fuor di metafora, mentre gli adulti si fanno la guerra contrapponendo modelli ideologici diversi, i ragazzi, nel mezzo, non riescono a forgiare la propria identità. O le proprie identità, a convivere con l’orgoglio di sentirsi appartenere sia al Marocco che all’Italia. La mancanza di un modello, di una guida a cui riferirsi, tendere, aspirare, lascia i giovani lacerati e in balìa di una scelta: o sei questo o sei quello. Ma il problema restano le contrapposizioni degli adulti.

Si litiga anche per dare un nome ai fatti di Peschiera: sessismo, razzismo…

Non esiste nessuna scelta tra sessismo o razzismo, ci sono entrambe le componenti ed entrambe vanno affrontate: qui le etichette e la cura a base di “parole d’ordine”, accoglienza, repressione eccetera, servono a poco. Bisogna avere un minimo di onestà intellettuale e fare tutti un passo indietro. Durante la pandemia ho lavorato come ausiliare della polizia locale di Milano, nella divisione contro le violenze familiari e di genere: è stata una tragedia quotidiana. Il numero spropositato di conflitti in casa, di donne e ragazzine che cercavano di fuggire, erano avvisaglie non solo di un malessere generalizzato: è stata messa troppa carne al fuoco, è crollata ogni precaria facciata. Non bastano le etichette e le parole per tenere in piedi relazioni, famiglie, siamo usciti dai lockdown carichi di violenza, c’è tanta rabbia in giro, i rapporti normali sono diventati difficili. Io credo che si debba ripartire da qui: i rapporti padri e figli, madri e figli.

Lei ha scritto una bella riflessione all’indomani dei fatti di Peschiera sul formare dal punto di vista culturale.

Formare, creare una piattaforma diretta di incontro e dialogo tra le parti, non più mediate dai cosiddetti “specialisti dell’immigrazione”, ma gestite e rappresentate dai rappresentanti e dalle rappresentanti delle comunità target. Soprattutto procedere allo smantellamento dei “ghetti” etnici o religiosi cittadini. Servono alleanze precise, responsabilità politica votata al bene della comunità, non solo accolta, ma di chi accoglie. Non ha senso continuare a stigmatizzare politicamente “la cittadinanza” per i figli degli immigrati nati o cresciuti nelle nostre scuole, altrimenti le risposte che danno sono quelle che viviamo, con il risultato di subire aggressioni, disagio e un costante ansia nell’emergenza. C’è in gioco la vita, la reputazione e lo stigma sociale dei ragazzi che hanno difficoltà a rapportarsi con identità multiple. Porto l’esempio di come a volte fermano la sottoscritta durante i doverosi controlli di patente o carta d’identità di fronte ai figli e di come viene trattato mio marito (sempre di fronte ai figli) in situazioni analoghe: non sminuisco la difficoltà per questi ragazzi. Né come donna e madre, la preoccupazione di tutti quei genitori che hanno avuto le figlie traumatizzate dagli assalti o molestie. Sono sicura che mia madre (e le nostre madri tutte) non ha vissuto l’ansia e la preoccupazione che sento quando mia figlia si attarda nel prendere i mezzi dopo aver passato un giorno all’università o esce per una serata con gli amici. Che le nostre ragazze abbiano perso il senso della loro sicurezza è la nostra maggiore sconfitta. Facciamo che Peschiera (o Milano a Capodanno) non sia il modello dell’Italia di oggi.

Tags: maryan ismailmolestie sessualirazzismosessismo
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