Perché Tempi ha tirato fuori il peggio (e il meglio) di me
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Tratto da perrisbite – Que viva Tempi. Tempi non è più in edicola da questa settimana di fine ottobre 2017. Dopo 22 anni cessa le pubblicazioni e prosegue in rete (dove troverete anche la rubrica di Fred Perri). Inutile raccontarsi che non è la stessa cosa. Sicuramente non me la racconto io, che sono nato con la carta tra le mani e senza questa mi sento un po’ perso. Quando un giornale di carta chiude, anche quello che mi fa più schifo, e ce ne sono tanti, provo un senso di vuoto. Figuriamoci quando non mi arriverà più la carta dove firmo e dove ci sono persone che stimo e apprezzo.
Ho amato Tempi. Perché Tempi ha tirato fuori il peggio di me. O forse era il meglio? Per 22 anni ha ospitato il cinismo e l’indole politicamente scorretta, a volte scurrile, del mio alter ego Fred Perri. Un caso evidente di doppio che meriterebbe un’indagine psicanalitica. Tempi mi ha permesso di dire le cose che penso senza dirle, come fanno tanti ai giorni nostri, perché lo richiede un ruolo, quello che si interpreta al momento. Tempi ha rappresentato un giornalismo non allineato, né di qua, né di là, né di sopra, né di sotto. Ha fatto un giornalismo veramente senza padroni, senza punti di riferimento se non una predilezione per gli esseri umani e le loro vicende. Ha fatto un vero giornalismo scomodo, non come quello di certi giornali che pubblicano le veline di regime, sia questo politico, economico, culturale o giudiziario. Non ha guardato in faccia a nessuno, è stato veramente scomodo.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Perché non ha accettato grande menzogna dell’illuminismo secondo cui il buono è chi la pensa correttamente, anche se ha potere, anche se è ricco. Invece Tempi non ha guardato in faccia a nessuno, soprattutto chi aveva potere e avere potere significa stare nei luoghi del potere, giocare la partita del potere, anche, apparentemente, all’opposizione. Ha incarnato lo spirito del libro di Vaclav Havel: “Il potere dei senza potere”. Non ha ricercato lo scoop fine a se stesso, la copertina a effetto, il mostro da sbattere in prima pagina e chissenefrega se poi qualche mese o anno dopo tutto finisce in fuffa (ricordate il “traffico di virus”?). Non si è occupato del potere con pettegolezzi o retroscena, ma se ne è occupato quando aveva a che fare con il popolo, con le persone e con i loro problemi. Tempi si è occupato di questo, di persone e storie che sugli altri giornali hanno trovato poco o nullo spazio. Ha raccontato storie ai confini del mondo, sia esso qui, alle nostre spalle, nelle nostre città, sia quello di posti lontani.
Tempi ha tirato fuori il meglio di me. Io e i ragazzi di Tempi ricorderemo sempre il premio “Reporter del gusto” per la copertina e il servizio in difesa dei salumi italiani (di qualità, con nomi e cognomi) quando arrivò quella specie di rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (quella che ha premiato Mugabe, per capirci) che diceva che prosciutti e soci facevano male alla salute. Mentre la stampa italiana riunita dava risalto alla notizia con il solito cerchiobottismo, noi ci siamo schierati con salami e capocolli. Ricorderemo quella grande cena da Enrico Bartolini, eh, ragazzi, in cui mi/ci hanno dato il premio. Anche se io ero reduce da un’ulcera e ho mangiato solo riso in bianco. Almeno avete mangiato voi per me (specialmente Amicone).
Tempi è stato così. È stata una delle mie case, un posto dove nessuno mi ha mai censurato nulla. Anzi, quando io proponevo un’auto-censura, loro mi dicevano: avanti così. Vorrei qui abbracciare tutti i ragazzi, alcuni non ci sono più fanno altri lavori, pure, con cui ho avuto a che fare in questi anni e con cui mi piacerebbe ancora avere a che fare. Saluto i tre direttori, per tutti voi, Gigi Amicone, Lele Boffi e Alessandro Giuli. Stiamo uniti e speriamo di ritrovarci, presto, di nuovo di carta.
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