Perché non crediamo alla libera conversione di Silvia Romano

Di Alessandro Vergni - Emanuele Boffi
12 Maggio 2020
Nessuno può indagare nel suo cuore ma abbiamo abbastanza elementi per giudicare cosa è successo

Caro direttore, servirebbe, a volte, mettersi dalla parte dei non esperti, provare a fare come l’uomo della strada che vede accadere certi fatti e si pone delle domande. Recepire il messaggio che viene dalla realtà senza la fretta di chiudere la partita. Succede invece che davanti a quello che accade si pretenda di appiccicare un risposta che quasi sempre confermi e rinforzi le convinzioni che si avevano prima dell’avvenimento.

Ne abbiamo la prova anche in merito al caso della liberazione avvenuta in queste ore di Silvia Romano, la cooperante italiana tenuta in ostaggio per 18 lunghi mesi dai gruppi terroristici islamici tra Kenya e Somalia. Rivediamo le immagini del suo arrivo in Italia. Domenica pomeriggio Silvia atterra con i suoi liberatori all’aeroporto di Ciampino. Ad attenderla i genitori, la sorella, il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri. Tutto come da protocollo. L’aereo si ferma. Si apre la scaletta e poi passano lunghi minuti in cui nessuno scende. Cresce in chi è lì e in chi da casa segue la diretta l’attesa di vedere il volto della ragazza. Finalmente escono gli uomini dei servizi e in mezzo a loro una figura non riconoscibile perché avvolta in un vestito verde che la copre tutta, testa compresa. È Silvia. Indossa un abito che non ci saremmo aspettati: una tunica da donna musulmana. Sfila verso i familiari; lunghi abbracci, il saluto alle autorità e poi la dichiarazione di star bene nella mente, nel fisico. Successivamente dirà di essersi liberamente convertita all’islam durante la prigionia.

Torniamo per un istante al frame in cui la vediamo comparire sulla scaletta dell’aereo e proviamo a registrare la nostra reazione iniziale: stupore. Stupore prima ancora delle spiegazioni che ognuno inevitabilmente proverà a darsi nei minuti successivi. Stupore perché ci saremmo aspettati una ragazza in abiti occidentali, magari con i capelli tagliati, sorridente seppur provata per lo stress subito, ma non certo una donna vestita in quel modo, chiaro simbolo di una nuova appartenenza. Ci si saremmo aspettati questo. Invece è arrivato un segno di senso opposto che ci ha preso in controtempo. È un primo dato che sconfessa il film che ci eravamo già fatti sulla vicenda. Poi, assorbita la botta, tutto inizia a trasformarsi in ipotesi, tesi, formule. Così, mentre Silvia entra all’interno dell’aeroporto, senza che nel frattempo ci siano stati forniti elementi nuovi da parte di chi conosce più in profondità la vicenda, e a cui spetta ancora tanto lavoro investigativo per circostanziare e comprendere il più possibile, l’Italia è già schierata su fronti opposti: da una parte chi vede in quel vestito – e nelle dichiarazioni successive – un affronto al suo Paese, che oltretutto ha speso qualche milione di euro per liberarla, dall’altra chi afferma che l’importante è aver riportato a casa un’italiana a prescindere, senza distinzioni e senza necessità di inutili approfondimenti sulla vicenda della conversione.

Zero elementi avevamo prima, zero elementi abbiamo ora. Stesso risultato vedendo i commenti e i post sui social nelle ore seguenti: si va da chi augura il peggio alla ragazza a chi scrive che, forzata o no nella sua adesione all’islam, è opportuno rispettare la sua libertà (sic), passando ovviamente per tutte le gradazioni del caso. Tutti sembrano comunque aver chiara e pronta la verità per spiegare la storia. Ognuno ha già formulato una risposta.

Se per una volta, invece, provassimo a guardare le cose con la semplicità dei bambini? Se provassimo ad ammettere che la realtà è più complessa delle riduzioni di parte nelle quali vogliamo chiuderla? Se accettassimo l’idea che ci sono tanti elementi che giocano in questa storia, che devono ancora essere chiariti con tempi e metodi imposti dalla materia trattata? Se ad esempio, Silvia fosse stata costretta ad apparire in quel modo e ad ammettere – come già avanzato da alcuni – di essersi liberamente convertita, pena ritorsioni contro chi si trova ancora nelle mani dei rapitori? Se la sua conversione fosse stata dettata dal contesto di ristrettezza e di sudditanza psicologica? Poi la domanda più scomoda di tutte: se invece avesse realmente scelto di abbracciare la fede islamica non in maniera forzata, come questo cosa interrogherebbe noi? Come inciderebbe sul sistema valoriale alla base del nostro sistema democratico? Cosa implica quel liberamente se realmente è andata così.

Ammettiamo con lealtà che di fronte a certi fenomeni possiamo non avere una risposta pronta. Preoccupiamoci allora di porre le domande giuste e attendiamo che le risposte arrivino poggiando sui dati e non sulle suggestioni della propaganda, da qualunque parte essa arrivi. E non lasciamo che essa ci svii dal cuore vero della questione: la libertà. La libertà negata dalla prigionia, la libertà di chi ha deciso di rischiare la vita per andare a salvare quella di altri, la libertà dell’opinione pubblica di sapere esattamente come è andata, fino alla libertà di compiere scelte personali che possono apparire incomprensibili, laddove si dimostrasse – ed è ancora tutto da verificare – che siano state realmente state scelte libere e non condizionate. Su questo sarebbe opportuno che si aprisse un dibattito serio tra tutte le parti in campo, perché su questo aspetto si fonda la nostra società. La liberazione c’è stata; adesso parliamo di libertà. Le due parole hanno la stessa radice.
Alessandro Vergni

Caro Alessandro, concordo con te sul fatto che è incredibile come, nel giro di poche ore, sulla povera Silvia, che si è fatta 18 mesi di prigionia, si sia passati dal giubilo all’insulto. Sono cose indegne e incivili, ma che gli vuoi dire ai cretini di twitter? Sono cretini, appunto.

Qualche elemento per valutare questa “libertà di conversione”, invece, ce l’abbiamo e non perché possiamo divinamente indagare cosa s’agiti nel suo cuore, ma perché – più banalmente – seguiamo il filo del ragionamento del presidente della Casa della cultura islamica di Milano, Mahmoud Asfa: «Mi chiedo come sia possibile considerare libera l’adesione a una religione mentre sei da mesi nelle mani di sequestratori tanto violenti come quelli di Al Shabaab. Poi, il fatto che abbia scelto di diventare musulmana dopo aver letto il Corano in italiano… Io stesso, che sono madrelingua arabo, spesso faccio fatica a comprendere cosa c’è scritto nel Testo sacro».

E sappiamo anche chi sono i jihadisti di Al Shabaab (su Tempi ne abbiamo parlato spesso) che non sono esattamente le dame della San Vincenzo. Sono quelli della strage di cristiani nel campus universitario di Garissa, sono quelli che non si fanno scrupolo di uccidere i fratelli musulmani che osano difendere i cristiani, sono quelli che hanno rapito nel 2011 e poi lasciato morire senza medicine Marie Dedieu, disabile e malata di cancro. Sono gli stessi che oggi, come ha spiegato il loro portavoce a Repubblica, useranno i soldi del riscatto per comprare armi e portare avanti il jihad.

Foto Ansa

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