Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Venticinque anni fa, in occasione del tifone che causò 138 mila morti in Bangladesh, un umorista italiano pubblicò su un quotidiano nazionale una vignetta spietata: «Poverini quelli del Bangladesh: per un trafiletto in prima pagina devono morire almeno in 100 mila!». Un quarto di secolo dopo, l’amara verità contenuta in quella vignetta non è svanita: notiziari televisivi e pagine dei grandi quotidiani hanno dato più spazio ai 19 morti e alle distruzioni che l’uragano Matthew ha causato negli Stati Uniti, che non ai 900 e passa registrati ad Haiti. Non è solo questione di difficoltà logistiche per mandare le troupe televisive lì anziché là. Il fatto è semplicemente che l’affinità culturale e i legami politici (di dipendenza, per essere precisi) fanno sì che il pubblico italiano si senta più colpito dai 19 morti statunitensi che dai 900 haitiani.
La retorica dell’uguaglianza e della fraternità universale non può nulla contro un dato di fatto: ci sono drammi che sentiamo più vicini di altri perché colpiscono chi è più simile a noi o chi esercita su di noi un potere (politico-economico o di altra natura). Un richiamo moralistico a mostrarci più sensibili alla sofferenza dell’“altro”, cioè di chi ha la pelle di un colore diverso dal nostro e gerarchie di valori diverse dalle nostre, non serve a nulla. Solo l’instaurarsi di rapporti reali, di una familiarità autentica cambia il nostro modo di sentire e di comprometterci con la realtà. Le famiglie italiane che hanno bambini haitiani in affido a distanza stanno vivendo la tragedia di Haiti in un modo diverso dagli altri italiani. Solo legami reali scansano le ipocrisie dell’uguaglianza virtuale.
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