Il terribile paradosso di Rimini, capitale dell’accoglienza delle mamme ucraine

Di Caterina Giojelli
11 Aprile 2022
La corsa all'ospitalità, la stagione del turismo alle porte, gli sgomberi della prefettura, gli appelli dei profughi per restare e gli albergatori allo stremo. A che serve il "buon cuore" dei singoli se non diventa opera per tutti?

«Presenteremo contro la Prefettura denuncia per abuso di potere. In pratica, ieri è stato detto ai profughi: o accettate le nuove destinazioni fuori Rimini o rinunciate all’aiuto dello Stato. Queste persone vogliono restare a Rimini perché qui hanno familiari e amici, come hanno ribadito lunedì mattina durante la manifestazione davanti alla prefettura. Daremo battaglia». Convocati in prefettura, i rifugiati ucraini ospiti degli hotel Brenta, Margherita e Luna Rossa si sono presentati con l’avvocato Vincenzo Iarino, passando dagli appelli alle denunce.

È solo l’ultimo atto di quello che ormai è diventato il “caso Rimini”, la provincia che col suo primato di donne e bambini accolti dall’Ucraina sta dando del filo da torcere al ministero dell’Interno: qui, su un territorio di appena 150 mila abitanti, sono già stati ufficialmente registrati 4.180 profughi (in realtà sono già quasi 5 mila, spiega il Resto del Carlino) e sono iniziati gli “sgomberi” della prefettura per trasferirli altrove.

Rimini e la corsa all’accoglienza

Come spesso accade, i guai sono iniziati con le migliori intenzioni: appena scoppia la guerra Rimini, con la sua popolosa comunità di ucraini (5 mila persone, numerose badanti e cameriere), diventa la prima meta di moltissime mamme in fuga con i loro bambini. Non parlano italiano, i mariti sono sotto le armi, però hanno qualcuno, una madre, una zia, una sorella, una suocera che li aspetta in Riviera. Chi non ha parenti si aggrega subito a chi ne ha uno disposto ad aiutarli, condividendo viaggio, fatica e paura; e così, da sparuti gruppetti, i profughi iniziano a moltiplicarsi. Rimini non aspetta ordinanze (la prima della protezione civile arriva dopo 10 giorni, quando si contano già centinaia e centinaia di profughi) o indicazioni “dall’alto”: spontanea parte la corsa all’ospitalità, le famiglie riminesi aprono le porte di casa, lo stesso fanno gli albergatori.

I bagnini di Rimini sud issano le bandiere gialle-azzurre, all’hotel Margherita, dove arrivano pacchi di merce donata da tutta la città, si suona l’inno ucraino prima dei pasti, i bimbi pregano per chi è restato in patria, Stephan ha appeso il disegno del suo papà vestito da soldato con le ali da angelo protettore della città, Lessa insegna «come posso, quello che posso» i rudimenti di italiano in sala da pranzo. Il 2 aprile si è festeggiata la nascita di Zlata: la sua mamma è stata una delle prime a bussare alle porte di Stefano Lanna, titolare del Margherita, con un pancione da fine gravidanza e altri due figli piccoli per mano.

«Qui rischiamo la stagione», «non cacciateci»

Questo accadeva 40 giorni fa. Oggi Lanna ha ancora lì 169 persone, «le ho accolte con tutto il cuore e di certo non le manderò via perché lo Stato ha deciso di non aiutarci – ha detto a Repubblica -. Non so quanto mi costerà, ma a sostenerci per fortuna c’è il grande cuore della città». Per un eroico Lanna disposto a trasformare la sua struttura in casa-accoglienza c’è però anche una Fiorella Mariano, gestore hotel Piccari, sconsolata, «il 10 aprile mi arriverebbero 103 inglesi. Non so più cosa fare perché comunque in albergo ci sono queste persone che non vogliono andare via. Io ho detto loro che non posso ospitarli più…».

Ma i profughi non se ne vogliono andare: la macchina della solidarietà si è mossa così in fretta che moltissimi bambini sono già stati inseriti nelle scuole, negli asili, «io da qui mi sposto solo per tornare in Ucraina. Mio marito dice che non è possibile, non c’è più nulla, hanno bombardato tutto. Non voglio fermarmi a lungo ma fatemi restare qui con mia madre finché non posso tornare a casa da mio marito», dice una mamma. Gli appelli sono tutti uguali: “non possiamo più ospitarvi o rischiamo la stagione”, “ce ne andremo presto, ma lasciateci vicino ai nostri affetti”.

Albergatori allo stremo, l’estate alle porte

Il fatto è che come va ripetendo Giosuè Salomone, presidente della cordata di albergatori Riviera Sicura e titolare dell’Hotel Brenta di Rimini, «senza aiuti da parte dello Stato, noi albergatori siamo allo stremo. Solo di luce e gas sono stati spesi dai vari esercenti circa 200 mila euro». Stiamo parlando dei costi a carico di una dozzina di titolari per ospitare 1.300 persone e garantire loro altrettanti pasti caldi. È vero, le derrate alimentari sono state pagate dal Comune, ma nessuno a oggi ha ricevuto rimborsi dal governo (non rientrano nei piani di palazzo Chigi) e Pasqua è alle porte, dopo due anni di Covid, crisi del turismo e lo spettro della disoccupazione che aleggia sulla città (come ovunque, le industrie della Riviera stanno patendo l’impennata dei costi delle materie prime).

Qualcuno in Comune propone di impiegare i profughi negli alberghi e i ristoranti, ma è più facile a dirsi che a farsi: il confine tra contratto stagionale e sfruttamento è per molti labile, e mai come quest’anno Rimini si gioca la sopravvivenza col turismo nella bella stagione. Nulla nei prossimi mesi può essere lasciato all’improvvisazione e moltissime donne scappate dalla guerra hanno bimbi troppo piccoli cui badare e non parlano nemmeno inglese.

Gli “sgomberi” della prefettura, l’impotenza del Comune

Di fatto l’amministrazione ha le mani legate, il tavolo Mir – Rimini per l’Ucraina, istituito dal Comune con le varie realtà del volontariato, organizza collette alimentari e gruppi educativi gratuiti per i piccoli arrivati grazie alla disponibilità di insegnanti in pensione e universitari. Ma oltre a tentare la parte del “collante” tra prefettura, terzo settore e profughi, non può risolvere il problema della ricollocazione delle famiglie.

Tutto resta infatti in capo alla prefettura che dopo 40 giorni di semivuoto normativo, spontaneismo, solidarietà autentica (con tutte le storture e i rischi del caso, non da ultimo il pericolo delle infiltrazioni della criminalità organizzata nella gestione dell’immigrazione dall’Ucraina), sta inviando i pullman davanti agli alberghi per trasferire i profughi nei Centri di Accoglienza Straordinaria et similia.

Con le zecche, lontani dalle scuole

«Ma da quanto è emerso sembrano dei posti tremendi in luoghi isolati e con poca igiene. Li abbiamo tolti da un inferno per metterli in un altro», è la denuncia del segretario nazionale dell’Associazione culturale europea Italia-Ucraina “Maidan”, Domenico Morra. Morra è indignato per le accuse mosse agli albergatori che avrebbero fatto partire la macchina della solidarietà con la prospettiva di accaparrarsi parte del tesoretto per l’accoglienza che si calcolava prevedesse dai 45 ai 60 euro a profugo al giorno – sebbene, per usufruire della convenzione, fosse richiesta l’adesione a un’associazione di categoria riconosciuta (come Federalberghi, Confesercenti, Confcommercio, Confindustria). Indignato dalle accuse nei confronti di chi ha prontamente accolto per poi rimanere solo, ma anche dalle fotografie inviate da chi è stato trasferito: dalla Puglia al Molise è tutto un immortalare di strutture fatiscenti, scarafaggi, zecche, riscaldamenti spenti.

Molti si chiedono che senso abbia finire confinati a 20 chilometri dai centri abitati, senza mezzi e senza la possibilità di mandare i bambini a scuola. Lessa ha lavorato in Italia per assistere gli anziani per sei anni, è cresciuta con le canzoni di Celentano e Cutugno: aiuta i suoi piccoli connazionali a dire qualche parola e contare in italiano perché padroneggia la lingua, ma rabbrividisce al pensiero che vengano allontanati dal minimo di stabilità e aiuto ritrovato.

«Peggio dei prigionieri»

Il primo trasferimento coatto contava 128 persone: hanno fatto dietrofront già in 40. «Questa mattina un pullman è partito da un hotel della città, ma non si sa bene per dove – scrive l’Ansa l’1 aprile -. Quando oramai tutti i profughi erano stati fatti salire a bordo, l’autista era ancora in attesa di istruzioni sulla destinazione». Si parlava del Cas in Piemonte, poi la prefettura ha inviato all’hotel Brenta due funzionari con una lista di 46 nomi destinati a luogo semi ignoto: in 30 hanno accettato di fare le valige e andarsene, gli altri no. «Ieri sera alle 8 ci hanno detto che dovevamo preparare le valige», raccontano due donne di Kiev e Dnipro cariche di figli e nipoti. Non sanno dove finiranno, «è peggio dei prigionieri». La città si stringe al “Concerto per la pace” organizzato dal Rotary e dalla Caritas. Ma la situazione resta critica, non solo per gli alberghi ma anche per le famiglie che hanno dato immediata disponibilità all’accoglienza rendendosi contro troppo tardi che non ci sarebbe stata alcuna “guerra lampo” e che i rifugiati non si sarebbero fermati “un mese solo”.

A Rimini non rimane in strada nessun profugo

A Rimini non è rimasto in strada un solo profugo. Persone di buon cuore – e grande o piccolo portafoglio – hanno risposto come potevano e credevano all’emergenza. Tutti i rifugiati hanno avuto un tetto, un letto, un pasto, ma non basta: non basta il buon cuore, le collette, non basta lo spontaneismo e il volontarismo, né delle famiglie, degli albergatori e tanto meno delle amministrazioni alle prese con le urgenze educative (e sanitarie) dei profughi. Non bastano gli eroi alla Lanna e nemmeno gli appelli a trovare una soluzione lanciati da chi, a partire dalla vigilia di Pasqua, si gioca la sopravvivenza con la propria struttura ricettiva.

A Rimini, capitale dell’accoglienza d’Italia, non basta vedere partire i pullman della prefettura carichi di mamme e bambini diretti non si sa dove. Non basta per essere certi di avere fatto la propria parte nei quaranta giorni in cui la generosità dei cittadini non ha aspettato decreti e ordinanze.

Non basta il buon cuore per accogliere

Non basta se si è lasciati soli, e non è la solita frigna verso lo Stato: non sarà un caso, se dopo due anni di distanziamento, paura, tentativi di confrontarsi e riempire di senso anche la morte e la malattia «non abbiamo mai assistito a una tale corsa all’accoglienza delle famiglie italiane» (ce lo confermava Giorgio Capitanio di Avsi pochi giorni fa). Uno spettacolo di bene che non può lasciare indifferenti o non suggerire una posizione di riferimento per tutti: generare gesti e opere di solidarietà, di gratuità, di giustizia, di socialità buona, che educa a non lasciare, in pace o in guerra, solo nessuno.

Cosa, allora, può far seguito allo spontaneismo? Per guardare a dove e con chi? Le necessità dei profughi ucraini sono concretissime, ma che rilievo avranno se l’orizzonte della corsa all’ospitalità di una singola città – e in una singola città – non riesce a suscitare un cammino condiviso, se il singolo albergo o famiglia o amministrazione non è messo nelle condizioni di diventare villaggio? Se questo è il modo di trattare chi accoglie, si dice a Rimini, la prossima volta potrebbero esserci meno persone di buon cuore.

Foto Ansa

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