Che c’entra “Oppenheimer” col dibattito sul conservatorismo? C’entra eccome
Un modo decisamente originale per commentare il filmone Oppenheimer può essere quello di collegarlo al dibattito sul conservatorismo in Italia, intensificatosi dopo la vittoria elettorale del centrodestra a trazione Fratelli d’Italia nel settembre di un anno fa, e recentemente innalzato di livello dopo gli interventi di Giovanni Orsina, la cui introduzione al libro di Marco Invernizzi e Oscar Sanguinetti Conservatori. Storia e attualità di un pensiero politico è stata anticipata dal quotidiano Il Giornale, e di Giuliano Ferrara che sul Foglio ha chiosato tale introduzione.
Che c’azzecca la storia della bomba atomica con il rovello intellettuale intorno alle potenziali basi ideali della coalizione di forze politiche che stanno tentando di governare il paese? C’azzecca eccome se non ci si limita alla prospettiva politicistica e si saluta con favore questo trattare le cose come casi seri anziché come materia per scontri di fazione e/o invettive via social.
La reazione a catena
Oppenheimer c’entra con l’attitudine conservatrice perché per tutto il film risuona la citazione dalla Bhagavad Gita indù che lo scienziato ha fatto sua quando si è reso conto del significato dell’invenzione che lui e il suo gruppo di fisici stavano mettendo a punto: «Sono diventato morte, il distruttore di mondi». Esegeti hanno tentato di disinnescare l’impatto terrificante di queste parole, che sono l’equivalente verbale della potenza atomica, spiegando che nel testo sacro indù esse sono pronunciate alla vigilia di una battaglia da Krishna per avocare alla divinità (di cui lui è l’incarnazione) il potere di vita e di morte, di creazione e di distruzione, e non all’uomo (il principe guerriero Arjun) che materialmente combatte e uccide. Dunque il fisico newyorkese, e con lui tutta l’umanità, non dovrebbero avere rimorsi di coscienza per avere inventato un’arma in grado di cancellare la vita sulla Terra: sono solo pedine nelle mani del Destino.
Eppure questa esegesi assolutoria cozza contro quello che si vede e si ascolta all’inizio e soprattutto alla fine del film, cioè l’inequivocabile contenuto dell’immaginario dialogo fra Robert Oppenheimer e Albert Einstein. «Quando sono venuto da te con quei calcoli, abbiamo pensato che avremmo potuto avviare una reazione a catena che avrebbe distrutto il mondo intero», dice il primo. «E allora?», risponde il fisico tedesco. «Penso che lo abbiamo fatto».
L’ipotesi che un esperimento come il Trinity test a Los Alamos potesse propagare i suoi effetti in modo tale da distruggere tutta l’atmosfera terrestre, e quindi tutte le possibilità di vita sulla Terra, era stata avanzata da Enrico Fermi, e poi era stata smentita e considerata una possibilità vicina allo zero da tutti gli altri scienziati. Ed effettivamente il primo test atomico così come le bombe lanciate su Hiroshima e Nagasaki e le innumerevoli esplosioni nucleari nell’atmosfera fra il 1945 e il 1963 hanno sparpagliato radiazioni in tutto il pianeta, ma non hanno incendiato l’aria che dovunque si respira. Eppure Oppenheimer sostiene, nella finzione cinematografica, il contrario: la reazione a catena che distruggerà il mondo intero è stata messa in moto, e a farlo non è stata una divinità, ma sono stati esseri umani.
Il “paradigma tecnocratico”
Chi non è d’accordo con l’affermazione dell’inventore della bomba atomica si appella alla ragionevolezza umana: le armi nucleari sono armi di deterrenza, che fino ad oggi hanno garantito che le grandi potenze non si facessero guerra direttamente fra di loro e hanno evitato la Terza Guerra mondiale; si possono limitare con appositi trattati e, quando avremo imparato a collaborare a livello planetario, si potranno mettere al bando, così come sono state messe al bando la schiavitù, i sacrifici umani, l’incesto, l’antropofagia, eccetera, istituzioni sociali rese obsolete dal progresso umano.
Le cose, però, non stanno così. Le armi atomiche fanno parte del progresso tecnologico, e dall’inizio dell’epoca moderna il progresso tecnologico ha una sua logica che è quella di non fermarsi davanti a niente: tutto ciò che è possibile inventare, sarà inventato. E poiché l’uomo è ragionevole e irragionevole nello stesso tempo, buono e cattivo nello stesso tempo, percorso da desideri vitali ma anche da pulsioni di morte, i suoi prodotti tecnologici riflettono questo dualismo. L’idea, che si sente tante volte ripetere anche da parte di illustri accademici e da celebrati intellettuali, secondo cui la tecnologia è neutra, ed è responsabilità dell’uomo usarla per il bene oppure per il male, è fondamentalmente ingenua.
La tecnologia non è neutra. Lo sapevano e hanno cercato di spiegarcelo Carl Schmitt, Martin Heidegger, Hans Jonas, Jacques Ellul, Neil Postman, Michael Hanby, eccetera. Non sono stati ascoltati. Così come non sono stati ascoltati divulgatori come Rod Dreher, che nell’Opzione Benedetto ha spiegato:
«La maggioranza delle persone parte dal presupposto che la tecnologia non sia nient’altro che una forma di scienza applicata, il cui significato morale dipende da quello che ne fa l’utente. È un’ingenuità. In un discorso del 2015 il filosofo Michael Hanby spiegava che “prima che la tecnologia diventi uno strumento, essa è fondamentalmente un modo di guardare il mondo che ha in sé una concezione dell’essere, della natura e della verità”. […] Per l’Uomo Tecnologico, la “verità” è ciò che funziona per estendere il suo dominio sulla natura e trasformare quella materia in oggetti che egli trovi utili o piacevoli. Guardare il mondo dal punto di vista tecnologico significa vederlo come materiale su cui estendere il proprio dominio, soggetti soltanto ai limiti della propria immaginazione».
Lo ha detto anche papa Francesco nella Laudato si’, parlando di “paradigma tecnocratico”, nel quale conta solo la quantità di potere sulle cose che l’individuo acquisisce:
«La scienza e la tecnologia non sono neutrali, ma possono implicare dall’inizio alla fine di un processo diverse intenzioni e possibilità, e possono configurarsi in vari modi» (n. 114).
La logica della massimizzazione del potere
A partire dall’epoca moderna, la logica della tecnologia è la massimizzazione del potere umano sulle cose e sull’uomo stesso, senza nessuna preoccupazione circa l’essere, la natura e il destino di ciò che si intende manipolare, che potrebbero imporre dei limiti alla volontà di potenza. Una volta uscito dalla bottiglia, questo genio non lo si può più fare rientrare: anche se gli Stati dovessero accordarsi fra di loro per reprimere la proliferazione nucleare, lo sviluppo tecnologico offrirebbe armi sempre più potenti, sempre più piccole e sempre più facili da innescare.
Se il mondo non lo annienterà, il capo di un regime dotato di armi di distruzione di massa che vorrà trascinare tutti nell’abisso nel momento in cui una sconfitta militare mettesse la parola fine al suo sistema di potere (cosa possibilissima e che alcuni già temono nelle circostanze odierne), lo distruggerà comunque una setta o un’organizzazione terroristica fanatica il giorno in cui un ordigno della potenza della bomba all’idrogeno (1.000 volte quella atomica di Hiroshima) potrà essere trasportato in uno zaino e innescato da un elettricista.
Per il principio illustrato da W.J. Stuart (al secolo, Philip MacDonald) nel romanzo del 1956 Il pianeta proibito, da cui fu tratto un famoso film: possiamo cercare di dominare le nostre passioni, ma non domineremo mai il nostro inconscio, dove ribollono i demoni dell’odio e del piacere di fare il male. Nel romanzo e nel film si narra la storia di una società extraterrestre tecnologicamente avanzatissima, andata completamente distrutta in una sola notte. Che cosa aveva prodotto la catastrofe? I Krell (nome della civiltà) avevano creato la macchina perfetta, la macchina in grado di proiettare materia attraverso il semplice pensiero. Un dispositivo in grado di tradurre in realtà ogni desiderio. Ma avevano dimenticato che sotto il pensiero umano giace l’inconscio: quest’ultimo si era impadronito della macchina, e le sue pulsioni distruttive e autodistruttive non avevano più avuto ostacoli a tradursi in realtà.
In difesa del cosmo. E dell’Apocalisse
La coscienza del piano inclinato apocalittico su cui scivola l’umanità dopo l’invenzione delle armi di distruzione di massa è ciò che muove l’ultima generazione di conservatori, quella che comincia con Albert Camus e finisce, per il momento, con Alain Finkielkraut e Patrick Deneen (il politologo cattolico americano autore di Why Liberalism Failed e di Regime Change). Dunque una compagnia che vede insieme credenti e non credenti, atei e cristiani. E qui siamo già fuori dai canoni che per esempio Invernizzi e Sanguinetti fissano nel loro libro (del quale abbiamo letto finora le prime 106 pagine con grande interesse) per quanto riguarda l’appartenenza alla famiglia conservatrice:
«Il conservatore non è necessariamente un uomo di fede, né un cristiano: ma obbligatoriamente è il contrario di un ateo, che considera il prodotto ultimo del processo rivoluzionario. Ciò vuol dire che è quanto meno un teista, uno cioè che crede in un Essere superiore alla contingenza della vita umana e del cosmo, un Essere che ha dato l’essere a ogni realtà “visibile e invisibile”». (pp. 100-101)
Ad accomunare il genere di conservatori sopra indicato è la preoccupazione espressa da Camus nel discorso di accettazione del premio Nobel per la letteratura assegnatogli nel 1957:
«Ogni generazione, senza dubbio, si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse più grande: consiste nell’impedire che il mondo si distrugga. […] Davanti a un mondo minacciato di disintegrazione, sul quale i nostri grandi inquisitori rischiano di stabilire per sempre il dominio della morte, la nostra generazione sa bene che dovrebbe, in una corsa pazza contro il tempo, restaurare fra le nazioni una pace che non sia quella della servitù, riconciliare di nuovo lavoro e cultura e ricreare con tutti gli uomini un’arca di alleanza».
Si tratta di essere conservatori per battersi contro il paradigma tecnocratico, orientato alla distruzione del mondo. Gli atei come Camus e Finkielkraut appartengono a questo conservatorismo per la loro commozione di fronte alla “contingenza della vita umana e del cosmo”: sono commossi della fragilità e gratuità di entrambi. I credenti condividono questi stessi sentimenti con più grande emozione, perché sanno a Chi rivolgere il loro “grazie” perché le cose, fragili e belle, sono. Ma hanno anche un’altra motivazione: sanno che l’Apocalisse, rivelazione finale, deve venire, ma la attendono da Dio, e non dalle mani dell’uomo. Dopo essersi arrogato ogni prerogativa divina, non accada che l’uomo strappi a Dio pure l’Apocalisse. Per questo «difendi, conserva, prega!» (Pier Paolo Pasolini, Saluto e augurio, 1974).
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!