Una sterzata al finanziamento pubblico del cinema serve eccome

Di Filippo Cavazzoni
21 Maggio 2025
Comprensibile la richiesta di certezza normativa al ministro Giuli da parte di registi e attori, ma è un fatto che il tax credit è “scappato di mano”. Ed è ora di iniziare a parlare della qualità delle produzioni
Il saluto del ministro della Cultura Alessandro Giuli in occasione della cerimonia di presentazione dei candidati ai Premi David di Donatello per l’anno 2025 tenutasi al Quirinale il 7 maggio scorso (foto Ansa)
Il saluto del ministro della Cultura Alessandro Giuli in occasione della cerimonia di presentazione dei candidati ai Premi David di Donatello per l’anno 2025 tenutasi al Quirinale il 7 maggio scorso (foto Ansa)

Gli attriti tra mondo della cultura e politica non sono una novità. Ogni tanto riemergono. Come accaduto con la polemica tra l’attore Elio Germano e il ministro della Cultura Alessandro Giuli iniziata durante la cerimonia dei David di Donatello e proseguita nei giorni seguenti, che ha portato un nutrito gruppo di registi e attori a inviare una lettera aperta al ministro, esprimendo preoccupazione per la situazione del cinema italiano e chiedendo un dialogo costruttivo con le istituzioni.

Se da una parte mondo del cinema e attuale governo mal si sopportano per ragioni ideologiche, dall’altra è evidente come quel mondo si senta una “eccezione”, che merita un trattamento di riguardo. Tale aspetto è stato ben simboleggiato da un altro acceso confronto, avvenuto tra gli ospiti dell’ultima puntata della trasmissione di Massimo Gramellini, in cui l’attore Valerio Aprea ha fatto autocritica («non siamo intoccabili in quanto artisti»), subendo la decisa replica del fumettista Makkox («quando finanzi la cultura non stai comprando un bitcoin, non è un investimento finanziario: è a perdere»).

Qual è dunque questa eccezione? Che per l’industria culturale non valgono le considerazioni legate a risultati, efficienza o sostenibilità economica: l’investimento (pubblico) è a perdere. Una posizione che, all’infuori della cerchia di intellettuali e artisti che beneficiano di tali finanziamenti, nessun contribuente sottoscriverebbe.

La storia del tax credit per il cinema

Al netto della percezione che il mondo del cinema ha di sé, il nodo centrale dell’attuale discussione verte sulla principale misura nata per fare affluire risorse al settore: il tax credit. Come dimostrato anche nell’approfondimento dedicato al tema e contenuto nel rapporto 2025 su Il sistema audiovisivo di e-Media e Istituto Bruno Leoni, il tax credit ha avuto un impatto tangibile sulla produzione. Forse ha avuto fin troppo successo, nel senso che attraverso questo incentivo sono state distribuite più risorse di quelle previste, facendo crescere l’offerta a dismisura, ben oltre l’effettiva domanda.

Entrato in vigore come misura permanente nel 2013, con la Legge Cinema del 2016 (ministro Franceschini) il “credito d’imposta” ha visto un suo rafforzamento e ampliamento. Contestualmente è stato istituito il Fondo per lo sviluppo degli investimenti nel cinema e nell’audiovisivo, scorporando così le risorse per il settore dal Fondo unico per lo spettacolo (Fus), che dal 1985 era il meccanismo utilizzato dal governo per finanziare annualmente anche il cinema. Il Fondo è passato negli anni da una dotazione complessiva iniziale di 400 milioni di euro a 640 milioni (con la legge di bilancio 2021), poi a 750 milioni (con la legge di bilancio 2022) e a 700 milioni (con la legge di bilancio 2024). La percentuale di risorse per il settore audiovisivo sul totale di quelle destinate dallo Stato alle attività culturali è passata dal 3,15 per cento nel 2015 all’8 per cento nel 2021, avvicinandosi per quantità a quelle che stanzia la Francia, il paese che dai nostri registi e attori viene visto come un modello da seguire per il modo in cui sostiene il cinema.

Finanziamento a perdere?

Dal 2014 al 2023 la produzione di film realizzati in Italia è raddoppiata, passando da 201 a 402. Tra il 2019 e il 2023 sono state ben 1.354 le opere di lungometraggio che hanno richiesto il tax credit, molte delle quali però non hanno raggiunto la sala.

Sul fronte dei conti pubblici, è stato inoltre messo in evidenza come lo strumento sia “scappato di mano”, a causa di uno scarto importante tra la spesa prevista e i dati “a consuntivo”: «Considerando i dati di consuntivo e quindi i 6 anni che vanno dal 2017 al 2022, la spesa è stata di 2.620 milioni, a fronte dei 1.998,8 milioni previsti (dai “piani di riparto”), con un “buco” nell’ordine di 631 milioni, corrispondenti ad una media annua di 105 milioni di euro».

È pertanto comprensibile che il governo abbia avviato una riforma per circoscrivere meglio l’utilizzo del tax credit. Approvato nel luglio 2024, al nuovo regolamento è seguito un decreto correttivo firmato pochi giorni fa e in attesa di pubblicazione, mentre il prossimo 27 maggio il Tar si pronuncerà sul ricorso promosso da una dozzina di piccoli produttori cinematografici contro le nuove regole.

L’incertezza normativa ha indubbiamente effetti destabilizzanti sul settore, rendendo difficile la pianificazione e mettendo in discussione investimenti e produzioni. La richiesta di una cornice normativa chiara e stabile è dunque più che legittima da parte del mondo del cinema. Tuttavia, la discussione non dovrebbe concentrarsi solo sul finanziamento pubblico, ma anche sulla qualità e sull’andamento del cinema italiano, che ancora oggi viene da molti associato al periodo del neorealismo, quando la questione del sostegno dello Stato era tutt’altro che all’ordine del giorno.

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