
“Noi e loro”. Vieni a vederlo al cinema con Tempi

È Noi e loro il titolo selezionato per il nostro consueto “Appuntamento al buio”. Ci vediamo giovedì 15 maggio alle ore 21 al multisala Le Giraffe di Paderno Dugnano (Mi) per guardare, discutere insieme e infine votare per la classifica stagionale il film delle sorelle Coulin. In sala anche Simone Fortunato e i giornalisti di Tempi. Prenota subito il tuo biglietto a soli 5 euro cliccando qui.
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Il cinema è spesso una questione di padri: padri assenti, padri che provano a cambiare ma non sempre vi riescono, padri che gettano un’occhiata distratta ai figli, padri soli, solissimi, disperati. Ho sempre nutrito grande stima nei confronti di quei registi, uomini o donne che siano, che hanno posto al centro delle loro narrazioni figure maschili, magari proprio quelle dei padri. Per uno sceneggiatore non è certo un gioco da ragazzi trattare e approfondire figure femminili, come ad esempio accade in certi film, direi quasi tutti i film di Pedro Almodóvar. Il motivo è semplice: le donne possiedono una tavolozza di colori, di sfumature, talmente ampia che un regista, a meno che non sia una ciofeca totale, qualche colore inevitabilmente lo coglie. Ma è ancora più difficile trattare gli uomini in sede di sceneggiatura, almeno trattarli come si deve, come esseri pensanti, psicologicamente complessi e non solo figurine d’azione. Mi ricordo in particolar modo di un film molto bello di qualche anno fa, di cui abbiamo già parlato in questa rubrica, lo splendido Manchester by the Sea, dove proprio un padre doveva fare i conti con colpe terribili e che però faticava anche solo ad esprimerle.
Giocare col fuoco
È la stessa sfida che le due sorelle registe Delphine e Muriel Coulin accettano nel raccontare, nel recente Noi e loro, due giovani che stanno per entrare nell’età adulta. Due figli: uno prossimo ormai all’università, l’altro più problematico, ancora in cerca di una strada, e dietro di loro, a osservarli, sempre un passo indietro, sempre presente in modo discreto e a volte incerto, la straordinaria figura del padre interpretato dal solito grande Vincent Lindon, che per questo ruolo ha vinto all’ultima Mostra del cinema di Venezia la coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile.
Noi e loro è una storia di dolore e di comprensione, una storia di fantasmi, perché le due registe pongono l’attenzione più che su una vicenda semplice semplice, sul personaggio che manca, e che è proprio una donna, la mamma che non c’è. I motivi sono solo accennati nel film, ma la sua assenza pervade ogni sequenza, ogni istante, come se dovessimo farci sempre i conti, con questa cucina un po’ lasciata andare, con questa modalità a volte dubbiosa di educare i ragazzi e, soprattutto, con il gran dolore che i due ragazzi, in modo diverso, si portano dietro. E il tratto più bello del film è proprio la nostalgia, nostalgia di una mamma che se n’è andata e in qualche modo è stata sostituita, più o meno maldestramente, da un papà che cerca di arrivare ovunque, rispetto al bisogno dei figli, ma non sempre ce la fa.
Il titolo originale, Jouer avec le feu, Giocare col fuoco, è molto più efficace nel raccontare la grande lotta quotidiana di un adulto che cerca di approssimarsi all’universo dei figli: un po’ è vero, coi ragazzi si rischia sempre di bruciarsi, magari impattando in modo sbagliato, per quanto si abbiano le migliori intenzioni.

Libertà e violenza in Iran
Altro film su padri alle prese con figlie complicate. Stavolta siamo in un luogo direi ancora più distante e doloroso, ovvero l’Iran di oggi, con lo straordinario Il seme del fico sacro. Già nel titolo si mostrano delle contraddizioni e un’attenzione, direi, per la generazione, per i figli che verranno e che imparano dai padri. È la storia di un magistrato appena promosso a giudice istruttore, funzionario dello Stato. Un tipo interessante, potremmo dire quasi progressista per quanto lavori con il potere iraniano: uno che torna a casa e si sfoga con la moglie perché costretto a firmare incarcerazioni senza processo. Insomma, il giudice non ci dorme di notte, tra giusti dilemmi morali e una promozione appena maturata che rischia di perdere se non riga dritto. Così la prima parte del film: dramma interiore, claustrofobia, il potere iraniano che incombe. L’uomo almeno a casa cerca di trovare spazi di libertà e cerca anche, giustamente, un dialogo, dei punti di riferimento nella moglie e nelle figlie liceali mentre là fuori monta la protesta studentesca contro il regime. Cesura fortissima e passiamo alla seconda parte: il film vira sui colori più scuri del thriller. È sparita la pistola del giudice, simbolo fortissimo e semplice al tempo stesso. L’uomo non si dà pace: ne va della sua reputazione, del suo orgoglio, della sua carica. E i sospetti cominciano a concentrarsi proprio sulla sua famiglia.
Gran film, zeppo di contraddizioni, prima fra tutte proprio la figura del giudice diviso tra un’autentica ricerca di bene e una istintiva, naturale predisposizione alla violenza. Film potente sia come immagine dell’Iran di oggi sia per il modo articolato di porre due generazioni a confronto, ha come unica controindicazione il fatto di essere molto lungo: richiede una certa attenzione, anche perché ci mette un po’ a decollare. In realtà, però, le tre ore di durata sono giustificabili proprio perché sono di fatto due film diversi in uno, quasi due atti teatrali, e quella cesura così netta, con una forza esterna che entra a gamba tesa per rompere l’equilibrio borghese, ricorda l’ormai datato Teorema di Pasolini, un altro che nel suo cinema ha spesso raccontato di conflitti generazionali.
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