Good Bye, Lenin!

Ola e il dramma dei profughi sul confine tra Polonia e Bielorussia

Di Angelo Bonaguro
07 Febbraio 2022
«Mi chiamo Ola Sabah Hamad, sono una madre di quattro figli, vengo da Baghdad. La vita nel mio paese è molto difficile, soprattutto per le famiglie che sognano la pace». Inizia così l’appello ai polacchi lanciato da questa madre trentenne che con il marito e i figli, in un gruppo di 30 rifugiati, ha trascorso […]

«Mi chiamo Ola Sabah Hamad, sono una madre di quattro figli, vengo da Baghdad. La vita nel mio paese è molto difficile, soprattutto per le famiglie che sognano la pace».

Inizia così l’appello ai polacchi lanciato da questa madre trentenne che con il marito e i figli, in un gruppo di 30 rifugiati, ha trascorso molti giorni nelle foreste al confine tra Polonia e Bielorussia, lottando per sopravvivere in pieno inverno.

«Dopo la sconfitta dell’Isis, l’Iraq è diventato uno scenario di guerra e le milizie terroriste hanno preso il sopravvento. Come donna, non avevo il diritto di scegliere o di esprimere la mia opinione. Non potevo sentirmi libera con i miei figli, né potevo garantire la loro sicurezza. Volevo vivere alla luce del giorno (…), crescerli lontano dal pericolo, dal razzismo e dai conflitti religiosi».

Pedine nel gioco geopolitico

Intervistata dalla tv polacca Tvn, Ola ha raccontato l’odissea del suo gruppo. All’inizio, come per gli altri, tutto fila liscio, sono le autorità bielorusse ad organizzare da mesi questi viaggi di profughi cui viene promesso di rifarsi una vita in Occidente, ma che sbarcati a Minsk vengono poi usati spregiudicatamente come pedine nel gioco geopolitico tra la Bielorussia e l’Ue.

In particolare, Lukašenko è riuscito nel suo intento di destabilizzare, se non politicamente, almeno eticamente la società polacca: da un lato coloro che commentano queste vicende con sarcasmo, e scrivono che «l’Arabia Saudita è molto più vicina e anche il clima è migliore, perché vogliono venire in Europa se è così cattiva?»; dall’altro coloro che, volontari fors’anche loro malgrado, cercano di contribuire alla soluzione di questa tragedia umanitaria che si consuma nei boschi vicino a casa. Nel mezzo, le mille sfaccettature di una società che si interroga sul lascito della solidarietà, sulla politica del governo e sugli appelli alla carità.

Rabbiosa resa dei conti

Lo dice chiaramente il rapporto di Grupa Granica, una delle associazioni che raggruppa i volontari: «Ciò che sta accadendo al confine non è una crisi migratoria. La situazione non è stata causata da guerre, disastri naturali o da improvvisi cambiamenti di potere. Le persone sono state condotte nelle zone di confine dal regime bielorusso allo scopo di provocare confusione e conflitto nella società polacca e polarizzarla».

Soddisfare i bisogni di alcune migliaia di persone, secondo la ong, «non supera le possibilità e le risorse del nostro paese. Eppure le autorità bielorusse sono riuscite facilmente a indurre la Polonia a prendere una serie di misure radicali: introdurre lo stato di emergenza, limitare la libertà dei media, vietare agli attivisti di entrare nella zona di confine, senza eccezione per chi fornisce aiuti medici e umanitari. (…). Così i nostri si sono buttati in una rabbiosa resa dei conti con i bielorussi, mentre sono in gioco vite umane».

Bere l’acqua della palude

Lo conferma il racconto di Ola: «Entrambe le parti ci hanno fatto rimbalzare come una palla, e noi eravamo sempre più esausti e disperati. Abbiamo implorato le guardie di frontiera bielorusse che dessero dell’acqua almeno ai bambini, ma hanno reagito duramente e ci hanno spinto verso il lato polacco, istigando i cani. (…) Ci sentivamo pedine nelle mani degli agenti di entrambe le parti».

Ola e la sua famiglia decidono di nascondersi nella foresta, unendosi ad altre famiglie in fuga: «Eravamo talmente disidratati da voler bere l’acqua della palude, è stato terribile. C’era anche una donna incinta con noi. I polacchi l’hanno presa per le braccia e le gambe e l’hanno gettata dalla parte bielorussa…».

Non va sempre così, ed è scorretto mettere sullo stesso piano la politica dei due Stati – anche questo un «successo» di Minsk, contribuire a mettere in cattiva luce Varsavia sulla scena internazionale.

Una realtà che ti piomba in casa

«Non dimenticherò mai due brave guardie di frontiera – ha aggiunto Ola: – stavamo camminando lungo la strada e abbiamo notato la pattuglia. Ho detto loro che i nostri figli sarebbero morti se avessimo passato un altro giorno in quella foresta. Mi sono seduta sulla strada e ho iniziato a piangere. Le guardie mi hanno chiesto di spostarmi in modo che nessun altro vedesse, poi ci hanno dato dell’acqua e del cibo per i bambini. Noi non vi abbiamo mai visti – ci hanno detto, indicandoci la direzione dove avremmo potuto trovare i volontari».

A differenza della Bielorussia, infatti, in Polonia può muoversi ancora liberamente la società civile. Oltre ai gruppi di volontari, l’esempio più emblematico sono le «lampade verdi» alle finestre, iniziativa lanciata dall’avvocato Kamil Syller che abita proprio nella zona di confine: «È una realtà che ti piomba in casa: abbiamo un tetto e un letto caldo, e ci sentiamo in colpa, stupidamente, irrazionalmente. (…) Ho capito che dovevamo fare tutto il possibile per evitare che quelle persone rimanessero nella foresta, occorreva far sapere loro che c’erano luoghi dove poter chiedere e ottenere aiuto. Così mi è venuta l’idea della luce verde», il «segnale» che quello è un luogo dove poter trovare rifugio e aiuto di prima necessità.

Muri alti, filo spinato

Durante la notte, la famiglia di Ola è stata rintracciata dai volontari, e successivamente è stata avviata la procedura d’asilo. Non è stato facile nemmeno questo: «Per otto giorni siamo stati tenuti in un presidio della guardia di frontiera e poi condotti in una struttura a Biała Podlaska, dove sembrava una prigione: muri alti, filo spinato, telecamere. Hanno preso tutte le nostre cose, compresi i telefoni».

Dopo due scioperi della fame e l’intervento di avvocati, attivisti e del difensore civico, la famiglia è stata finalmente trasferita in un centro dove gode di maggiore autonomia. «Tuttavia, non gusterò la libertà mentre altre famiglie soffrono nella foresta o sono temporaneamente rinchiuse. Aiutatemi a difendere i miei amici, a vivere in pace. Siamo tutti esseri umani e abbiamo gli stessi diritti» – conclude Ola, che oggi spera di poter fare la parrucchiera in un paese normale.

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