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Ogm Doc. Perché sarà l’ingegneria genetica a salvare la tradizione del vino italiano

Intervista a Michele Morgante, creatore dei nuovi vitigni "bio" resistenti alla peronospora: «Con la cisgenesi avremmo fatto meglio. Risparmiando tempo e risorse»

Pietro Piccinini
09/03/2016 - 12:34
Società
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uva-vite-shutterstock_156222257

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Il paradosso è che l’arma migliore nella doppia battaglia per la difesa dell’ambiente e per la tutela del “prodotto tipico italiano” potrebbe essere proprio un Ogm, e cioè l’incubo peggiore di tanti ambientalisti e di tanti paladini del made in Italy. È questo lo scenario ironico ma non illogico che sta prendendo forma nel mondo della viticoltura italiana, dove qualcosa deve avere iniziato a muoversi sul serio se perfino un ministro “Ogm free” come Maurizio Martina, titolare dell’Agricoltura, comincia a pronunciare con un certo piacere parole come “genome editing”.

Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome
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In quanto al fronte ecologico, giusto venerdì 26 febbraio Carlo Petrini ricordava dalle colonne di Repubblica quanto sia impellente per l’Italia «la necessità di un’agricoltura che si affranchi il più possibile dalle sostanze chimiche». E se questo secondo il signor Slow Food è vero per il glifosato (l’erbicida sospettato dall’Oms di cancerogenicità, la cui diffusione però, in attesa di prove inconfutabili a suo carico, potrebbe essere presto nuovamente autorizzata dalla Commissione europea), figurarsi se non vale per i fungicidi, che rappresentano un dramma per l’ambiente e un problema addirittura sproporzionato per la viticoltura. La vite infatti occupa solo il 3 per cento dei terreni agricoli dell’Europa, ma al suo trattamento è destinato ben il 60 per cento dei fungicidi. I funghi sono un’autentica persecuzione per i viticoltori, tanto è vero che sono decenni che si esercitano in tutto il mondo per “creare” vitigni resistenti a piaghe come la peronospora.

In quanto al fronte dell’italianità, è da novembre che il settore dell’uva e dell’enologia si accapiglia su una clamorosa lettera aperta di Angelo Gaja che ha voluto personalmente «sfatare il tabù delle viti Ogm». Secondo il principe del Barbaresco i cambiamenti climatici stanno rendendo gli antichi nemici dei viticoltori sempre più pericolosi e imbattibili, e «la salvezza del vino italiano», ha scritto letteralmente Gaja, potrebbe giungere proprio attraverso l’impiego nei campi di quegli «organismi geneticamente modificati» che «appaiono a tanti come una bestemmia».

Uno che conosce approfonditamente entrambe le materie della sostenibilità ambientale e dell’identità delle nostre viti è il genetista Michele Morgante, che non è solo il presidente della Società italiana di genetica agraria (Siga) e il direttore scientifico dell’Istituto di Genomica applicata di Udine (Iga), ma è anche uno dei membri del team di ricerca che recentemente ha ufficializzato la creazione di dieci nuovi vitigni capaci, appunto, di resistere meglio di quelli “tradizionali” ai funghi come la peronospora. Si chiamano Fleurtai, Soreli, Sauvignon Kretos, Sauvignon Nepis, Sauvignon Rytos, Cabernet Eidos, Cabernet Volos, Merlot Khorus, Merlot Kanthus, Julius, a bacca bianca i primi cinque, a bacca rossa gli altri.

La ricerca, avviata nel 1998 dall’Università e dall’Iga di Udine in collaborazione con i Vivai cooperativi di Rauscedo, è culminata nell’agosto scorso con l’iscrizione nel registro nazionale delle dieci nuove varietà di vite e a gennaio con la presentazione pubblica a Udine. A furia di incroci e selezioni, Morgante e i suoi colleghi italiani sono riusciti in un intento che permetterà ai produttori di ridurre notevolmente se non di azzerare l’utilizzo di fungicidi a difesa dei vigneti, risparmiando all’ambiente un mucchio di trattamenti chimici e alle proprie tasche una spesa ingente.

E qui attenzione al paradosso nel paradosso: i vitigni del pool scientifico di Morgante non sono Ogm, eppure Morgante è il primo a confermare che sì, «la salvezza del vino italiano» potrebbe venire dall’ingegneria genetica, come dice Gaja.

Professor Morgante, come ha ricordato il suo collega Raffaele Testolin, voi siete riusciti, in Italia, a realizzare un “sogno” che anche altri paesi inseguono «da oltre cento anni». Come spiegherebbe a dei profani della materia la differenza fra il vostro e altri progetti analoghi?
Da un lato, da parte nostra c’è stata molta attenzione alla selezione per la qualità, cosa che ha significato anche puntare sui grandi numeri: abbiamo prodotto migliaia di piante tra le quali siamo arrivati a sceglierne dieci. I nostri vitigni inoltre sono stati microvinificati per cinque annate, e in ogni annata un panel di esperti ha degustato e scelto i più interessanti. Dall’altro lato, a fare la differenza è stato lo stretto legame con un partner industriale. I Vivai cooperativi di Rauscedo, che poi hanno avuto in licenza esclusiva le nuove varietà, ci hanno appoggiato fin dall’inizio e questo è stato importante non solo per il supporto finanziario del progetto, ma anche per la capacità di penetrazione commerciale, che noi altrimenti non avremmo mai raggiunto.

Qualche osservatore del mondo del vino si domanda quale risultato daranno i nuovi vitigni nel bicchiere. Invece voi vi siete già fatti un’idea anche di questo.
Il risultato nel bicchiere lo abbiamo già fatto assaggiare in tante occasioni. I vini bianchi a detta di tutti sono molto interessanti, sul piano qualitativo oserei dire che sono indistinguibili dalle varietà tradizionali. Per valutare i vini rossi secondo me ci vuole più tempo, perché ad oggi non sono mai stati vinificati su una scala “normale”, e inoltre il sito dove sono stati coltivati finora, a sud di Udine vicino al mare, per caratteristiche climatiche e pedologiche non è una zona adatta ai vitigni a bacca rossa.

Ma questi nuovi vitigni resistenti alle malattie sono o non sono “geneticamente modificati”?
Dunque, se stiamo alla definizione letterale, noi abbiamo modificato geneticamente dei vitigni e ne abbiamo creati di nuovi, che non sono il Tocai, il Merlot, il Cabernet, né l’altro genitore da cui siamo partiti. Se invece stiamo alla definizione dettata dalla normativa, dove “geneticamente modificato” è solo il prodotto frutto di un intervento di ingegneria genetica che non si sarebbe potuto generare per via naturale, questi vitigni non sono geneticamente modificati, perché sono il risultato di incrocio e selezione. Si rientra nella definizione di organismo geneticamente modificato solo quando si preleva un gene da una varietà e si inserisce in un’altra con tecniche di ingegneria genetica. Nel nostro caso, non è stato fatto.

In Italia è vietato farlo?
Non è vietato, sarebbe possibile farlo. Ma attualmente bisogna sottoporsi a un processo di approvazione in sede europea molto lungo ed estremamente dispendioso: potrebbe costare tra i 50 e i 100 milioni di euro. Non solo. Anche qualora si riuscisse ad avere dall’Efsa (European Food Safety Authority, l’ente per la sicurezza alimentare) l’approvazione per coltivare queste piante in campo, l’Italia potrebbe far valere, in base alla direttiva europea che è stata approvata lo scorso anno, un divieto valido per tutto il territorio nazionale. Se avessimo ottenuto questi vitigni attraverso l’ingegneria genetica avremmo dovuto superare tutti questi passaggi e ostacoli.

Lei saprà che dopo la presentazione a Udine i vostri vitigni sono stati festeggiati dalla deputata friulana di Sel Serena Pellegrino come «il miglior esempio di come si possa far fare un enorme balzo in avanti alla vitivinicoltura stando ben alla larga dalle pericolose incognite e lusinghe della progettazione ingegneristica di organismi geneticamente modificati». Davvero fra i vostri obiettivi c’era quello di «stare ben alla larga» dalla zona Ogm?
Noi non volevamo starne alla larga. È indubbio che quando questo progetto è iniziato, primo, non avevamo in mano i geni; secondo, la normativa all’epoca ci avrebbe reso impossibile portare i prodotti sul mercato. Quindi, siccome avevamo obiettivi molto concreti, e cioè ottenere varietà che potessero produrre benefici in tempi ragionevolmente brevi, l’unica strada percorribile era quella dell’incrocio e selezione. Ma non perché la considerassimo superiore all’ingegneria genetica, assolutamente. Era semplicemente un approccio realistico. E questo non vuole dire che non siamo interessati all’ingegneria genetica. Al contrario. I nostri vitigni sono nuovi, e anche concesso che siano (come noi riteniamo che siano) qualitativamente pari alle varietà già esistenti, è indubbio che siano interessanti principalmente per regioni che non hanno una viticoltura e un’enologia legate a grandi tradizioni – infatti i Vivai di Rauscedo li stanno promuovendo soprattutto nei cosiddetti nuovi mercati: Est Europa, Asia, anche Oceania. Se però pensiamo all’Italia e alla Francia, paesi produttori di vini che sono il risultato di esperienze di secoli con specifici vitigni, beh, è un po’ utopistico pretendere che cambino varietà dall’oggi al domani. Ecco, per andare incontro alle necessità di questo tipo di agricoltura noi riteniamo che la strada migliore sia un intervento “cisgenico”, ovvero il trasferimento attraverso l’ingegneria genetica dello stesso esatto gene che abbiamo trasferito attraverso l’incrocio e la selezione.Così useremmo l’innovazione per mantenere le nostre tradizioni.

Quindi lei crede che si possano ottenere varietà resistenti alle infezioni fungine senza dover creare nuovi vitigni, semplicemente “migliorando” quelli già esistenti e preservandone l’identità?
Sì. È quello che oggi viene chiamato “clone” dentro una varietà.

Però, parole sue, un intervento del genere può costare fino a 100 milioni di euro.
Vero, ma la stessa Efsa è del parere che per gli interventi non transgenici (quelli cioè in cui il gene viene trasferito da una specie a una specie diversa) ma cisgenici (quelli in cui il gene viene spostato all’interno della stessa specie, con un risultato del tutto equivalente a quello che si potrebbe produrre con un incrocio) il processo di approvazione dovrebbe essere fortemente semplificato. Sulla base di questo parere sia l’Italia sia altri paesi si stanno muovendo in Commissione europea per rendere l’iter più veloce e meno costoso.

Perché adesso è così onerosa questa procedura?
Perché ad esempio è richiesta tutta una serie di test tossicologici e immunologici che hanno costi enormi, sono simili a quelli che si fanno per arrivare all’approvazione di un farmaco. Questo ha senso se il gene che viene inserito non è mai stato presente nella catena alimentare, è giusto in tal caso tutelarsi e tutelare i consumatori rispetto a possibili effetti indesiderati. Ma nel nostro caso specifico parliamo dello stesso gene che già oggi è presente in varietà il cui vino viene consumato senza che nessuno se ne preoccupi. Se non sono richiesti controlli tossicologici e immunologici quando si trasferisce il gene per incrocio, perché sono richiesti quando avviene per ingegneria genetica, se alla fine il prodotto è lo stesso?

Si legge sui giornali che per ottenere i vostri dieci vitigni ci sono voluti quindici anni di ricerca, centinaia di incroci sperimentati, 24 mila piante valutate e selezionate, oltre 500 micro-vinificazioni tentate. Quanto di questa fatica e di queste risorse si sarebbe potuto risparmiare grazie all’ingegneria genetica?
Si risparmierebbe soprattutto tempo. Ma anche i numeri non sarebbero gli stessi, perché tutto il progetto si giocherebbe su poche piante. Con un ulteriore vantaggio: le varietà che abbiamo prodotto noi derivano, sia pure risalendo di alcune generazioni, da incroci con specie selvatiche, quindi al loro interno, oltre ai geni di resistenza, hanno anche altri geni ereditati dalle specie selvatiche; l’intervento di ingegneria genetica da questo punto di vista sarebbe molto più “pulito”.

L’ingegneria genetica dunque serve a salvare il vino made in Italy?
Esattamente. Sottoscriverei in toto la lettera aperta di Angelo Gaja pubblicata pochi mesi fa.

Anche il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina ha commentato il vostro successo auspicando «un salto di qualità ulteriore» nella ricerca italiana sulle «biotecnologie sostenibili». Lei che salto di qualità si aspetta?
Io credo che se oltre all’incrocio e alla selezione potremo usare anche nuove tecnologie come la cisgenesi e il genome editing, allora riusciremo a conciliare anche meglio tradizione e sostenibilità, che è la sfida per l’Italia. Il nostro paese è forte di un patrimonio di conoscenze e tradizioni, anche nel senso delle varietà, che però non può restare immutato nel tempo: bisogna attrezzarlo per difendersi sempre meglio dai nemici quali i vari patogeni. Per ottenere questo risultato senza snaturare le varietà tradizionali dobbiamo poter ricorrere alle nuove tecnologie, in particolare per specie come la vite e altre piante da frutto, per le quali l’incrocio comporta tempi di miglioramento genetico molto allungati e ci costringe a modificare completamente il patrimonio genetico della varietà di partenza.

Come vanno sul mercato i nuovi vitigni? La domanda c’è?
Questo dovrebbe chiederlo ai Vivai  di Rauscedo, sono loro che si occupano dell’aspetto commerciale. Io non ho un’idea precisa dei numeri, però credo che ci siano prospettive interessanti.

Foto uva da Shutterstock

Tags: biotecnologieingegneria geneticaogmudinevino
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