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Quella nube che investì Seveso (e che doveva uccidere migliaia di uomini e fare nascere mostri)

Quarant'anni fa il disastro diossina divenne l’occasione per invocare l’aborto. Il popolo cattolico, invece, in quella sventura scoprì «una capacità di amore e di libertà. E un’autentica fede»

Daniele Guarneri
28/06/2016 - 3:00
Società
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seveso-diossina-foto-rcs

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Seveso, sabato 10 luglio 1976. Erano da poco passate le 12.37 quando dai camini dell’azienda chimica Icmesa uscirono fumi di colore rosa che si alzarono in cielo e trasportati dal vento si depositarono su un’area della Brianza compresa tra Seveso, Meda, Cesano Maderno e Desio. Si trattava, ma lo si scoprirà più avanti, di diossina. Da quel momento, la piccola cittadina a 22 chilometri da Milano diventò il centro dell’interesse di politici e scienziati, tutto il mondo iniziò a guardare con sgomento quel che accadeva a Seveso, epicentro di uno dei disastri ecologici più importanti del secolo scorso. Oggi, a parte i protagonisti di quei giorni, in pochissimi sanno cosa è accaduto. Ci si ricorda del disastro del Vajont, dell’alluvione a Firenze, del terremoto in Friuli… Eppure questa è una vicenda che merita di essere ricordata. “L’ignoto genera paura, il Mistero genera stupore”, era il titolo del Meeting di Rimini di qualche anno fa. Titolo che riassume bene quei terribili mesi. La popolazione si trovò davanti a qualcosa di sconosciuto, invisibile, impalpabile che generava paura. «Noi eravamo pronti», racconta Giancarlo Cesana, oggi docente universitario, all’epoca ventottenne e già specialista in medicina del lavoro. Insieme ad altri amici di Comunione e liberazione si recò subito nella cittadina colpita dalla diossina. «Eravamo pronti a stare davanti a quell’ignoto. Era così per l’idea di vita che avevamo, un’esistenza data per un compito, per realizzare qualcosa. Non c’era ignoto che potesse fermarci. Infatti non ci fermò».

Il libro di Federico Robbe, Seveso 1976. Oltre la diossina (Itaca), racconta del coraggio che dimostrò quella comunità cattolica davanti a qualcosa di potenzialmente mostruoso. Dello stupore di una popolazione davanti alla solidarietà di giovani e meno giovani, che magari nulla c’entravano con Seveso. Dell’intelligenza grazie alla quale quella gente riuscì a non cedere alla paura e all’ideologia che movimenti e giornali usarono per strumentalizzare gli eventi e il dolore allo scopo di promuovere l’interruzione di gravidanza volontaria che sarebbe stata approvata due anni dopo con la legge 194 del 1978.

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L’Icmesa, conosciuta da tutti come “La fabbrica dei profumi”, apparteneva alla multinazionale svizzera Hoffmann-La Roche. Lo stabilimento produceva composti per l’industria farmaceutica e dei coloranti. E anche il triclorofenolo, utilizzato nella preparazione di cosmetici, diserbanti e defolianti. Il pericolo derivante dalla fuoriuscita di quei gas tossici fu in principio minimizzato, ma tre giorni dopo l’incidente l’atteggiamento dei dirigenti della fabbrica e della popolazione mutò. La mattina del 13 luglio furono trovati nei campi, nelle stalle, nei pollai e per le strade centinaia di carogne di animali: vacche, pecore, conigli, galline, cani e gatti, piccioni. Tutti morti stecchiti. La situazione precipitò quando alcuni giorni dopo il sindaco di Seveso Francesco Rocca fu avvertito che alcuni bambini presentavano arrossamenti vistosi su volto, gambe e braccia. Si trattava di cloracne (acne clorica), delle specie di ustioni di primo e secondo grado dovute alla presenza di soda caustica nella nube fuoriuscita dall’Icmesa.

Il caso più noto fu quello di Stefania e Alice Senno, all’epoca bambine di due e quattro anni. Il loro volto rovinato dalla cloracne e pubblicato su tutti i quotidiani diventò uno dei simboli dell’incidente. Seveso fu meta di reporter italiani e stranieri e la notizia si diffuse in modo esponenziale. Si intrecciarono valutazioni contraddittorie e previsioni apocalittiche, si disse che la diossina poteva uccidere anche in dosi microscopiche, ma non c’era prova scientifica: di quel veleno si sapeva poco, soprattutto dei suoi effetti sull’uomo. Non solo in Italia, ma in tutto il mondo.

Si sapeva però che ne bastava una piccolissima dose per far spirare le cavie da laboratorio. E questo bastò ai cronisti per scrivere articoli dai toni catastrofici. Il libro di Robbe ne riporta qualcuno, aiutano a farsi un’idea del clima: “Duecentomila persone seriamente a rischio”; il Corriere della Sera interpellò specialisti britannici i quali affermarono che la nube tossica era «senza dubbio assai più pericolosa delle sostanze chimiche usate dalle truppe americane per distruggere la vegetazione in Vietnam»; L’Espresso non andò per il sottile: “Ed è subito Vietnam”. L’articolo iniziava così: «La nube candida, quanto mortale, levatasi sabato 10 luglio (…) viene dalle foreste vietnamite irreversibilmente trasformate in deserti lunari dagli effetti della guerra chimica».

È facile immaginare – scrive Robbe – l’impatto di tali considerazioni sulla popolazione interessata. Specialmente se accompagnate da altre notizie come questa, tratta sempre dal reportage del settimanale: «Saranno tre anni di ansia per tutte le popolazioni locali, specie per le donne incinte su cui incombe una notevole probabilità di partorire bimbi focomelici». La tendenza a gettare il panico era presente in tutta la stampa: “Più diossina che in Vietnam” (Panorama); “Peste chimica: i giorni del terrore” (Epoca); “I gas che distrussero il Vietnam hanno un sicario alle porte di Milano” (Giorni); “E a Seveso nascono mostri?” (Tempo); “Peggio che in Vietnam” (Corriere della Sera); “Può essere peggio di Hiroshima” (L’Europeo).

Le Olimpiadi di Montreal in pieno svolgimento passarono in secondo piano. Furono il primo evento a colori trasmesso dalla Rai, ma le aperture di giornali e Tg vennero dedicate a Seveso. L’arcivescovo di Milano Giovanni Colombo, alcuni giorni dopo l’incidente, celebrò una Messa invitando a non rimanere inerti: servivano risposte e soprattutto una speranza per continuare a vivere. Nel frattempo l’amministrazione comunale e le autorità sanitarie nazionali suddivisero in tre aree il territorio infestato. La Zona A, quella dove la contaminazione era più elevata; poi una Zona B, dove l’inquinamento era minore ma comunque pericoloso (Cesano Maderno e Desio); infine la Zona R, una fascia di rispetto non avvelenata che racchiudeva le Zone A e B. Ai cittadini della Zona A fu chiesto di abbandonare le case (non sarebbero più rientrati) e arrivò anche l’esercito che con 9 chilometri di doppio filo spinato delimitò quell’area. Ovunque spuntarono cartelli minacciosi: “Zona inquinata. Divieto assoluto di accesso” e mezzi comunali dotati di altoparlante ripeterono questo avviso: «Non bisogna mangiare neanche se bollite: verdure, ortaggi, frutta ed altri vegetali. Uova, latte neanche se bollito e suoi derivati. Carne di ogni genere proveniente dalla zona inquinata».

Seveso-1976-260x389Una generazione pronta
In una situazione già complicata i giornali non fecero altro che peggiorarla. Dopo la legge sul divorzio l’obiettivo si chiamava aborto. E il caso della diossina fu subito cavalcato: “A Seveso nasceranno i mostri. Proposto l’aborto terapeutico per le gestanti della zona intossicata”. Fu anche consigliato alle persone di astenersi per sei mesi dalla procreazione. Con il diffondersi della notizia il disastro diossina arrivò a colpire anche le imprese locali: i mobili realizzati in quella parte della Brianza non ebbero più mercato. Si scrisse che erano contagiosi, meglio starne alla larga. Fu una vera catastrofe sociale ed economica. Non umana. Perché ci fu chi prese sul serio l’invito del cardinale Colombo. Il movimento di Cl si mosse con vigore e la loro fu una presenza feconda perché riuscì a coinvolgere tutta la comunità cattolica. Nacque l’Ufficio decanale di assistenza e coordinamento dove si organizzò tutto il necessario per continuare a vivere in modo dignitoso. I bambini furono portati in vacanza, si fecero turni per andava a trovare gli sfollati alloggiati a Bruzzano e Assago. Si fece compagnia alle gestanti, terrorizzate dalle notizie lette e dalle pressioni di persone che da Milano arrivarono a Seveso per parlare di «mostri in pancia», «disgraziati», «mongoloidi». Fu fondato anche Solidarietà, periodico nato per dare risposte alle persone. In tre anni arrivò a stampare 60 mila copie distribuite in tutta Italia. «Ci accusavano di minimizzare e nascondere i pericoli», racconta ancora Cesana. «Non negavamo nulla, stavamo davanti al problema con una prospettiva di speranza. Facevamo notare che nulla di tutto ciò che si prevedeva stava accadendo: le malattie che avrebbero dovuto uccidere migliaia di persone non uccidevano; i feti mostruosi che sarebbero dovuti nascere non nascevano». Ambrogio Bertoglio, all’epoca trentenne, psichiatra e membro del direttivo del consorzio sanitario Brianza Seveso dice nel libro: «Eravamo consapevoli che non avremmo risolto noi le cose: il problema principale era vivere la situazione e affrontarla in maniera realistica. Insomma: eravamo una generazione pronta a mettersi in gioco quando successero i fatti dell’Icmesa. E così è accaduto».

Le provette congelate
Sul rifiuto della “cultura dello scarto” che si diffuse in quei giorni, il libro di Robbe riporta un commento tratto da una rubrica di Avvenire. A firmarlo un non meglio identificato Guido Vescovo e le sue parole descrivono magnificamente la testimonianza di chi non voltò le spalle alla vita: «La gran parte delle coppie di Seveso e Meda hanno detto sì alla vita, nonostante tutto. Ora questo sa di prodigio. Perché si fa presto a dire: siete cristiani, c’è il comandamento di Dio e non si può. Ma bisogna essere stati appresso a casi siffatti per sapere in concreto quale rovello e tormento provano una donna e un uomo nell’intimo dell’intimo, sotto l’incalzare implacabile del dubbio atroce sul futuro del figlio (…). C’è chi ne esce vittorioso. E allora è una festa, una conquista che non ha eguali. Presa la decisione, detto il sì definitivo (ci prenderemo il figlio che verrà), accade qualcosa di straordinario nell’animo: avvertono i due sposi di aver fatto l’atto più alto di libertà, che alcuni chiamano paternità responsabile, ma chi ne sa qualcosa lo sente invece come l’atto del più puro e intenso amore». Vescovo, di pseudonimo e di fatto, nell’articolo confessò che avrebbe voluto essere un parroco: «Non solo per incoraggiare e aiutare, ma soprattutto per ammirare lo spettacolo di questi nostri spose e sposi che insegnano anche a me vescovo straordinarie lezioni di cristianesimo. Non si diceva che questa nostra Chiesa cattolica è morta e stecchita? Ed eccoti invece che sventure improvvise, come la nube di Seveso o il terremoto in Friuli, ne mettono allo scoperto una vitalità impensata: un coraggio magnanime, una fierezza, una capacità di amore e di libertà, e un’autentica fede».

Oggi, a distanza di quarant’anni, la scienza può confermare che le conseguenze dello spargimento di diossina non furono quelle prospettate. Il merito si deve principalmente al professor Paolo Mocarelli, uno dei primi medici che si misero al lavoro nei laboratori allestiti nelle scuole. All’epoca era impossibile dosare la diossina nel sangue, ma in America ci stavano lavorando e prima o poi ci sarebbero riusciti. Così il dottor Mocarelli decise di congelare 35 mila provette di sangue raccolte in quei mesi e negli anni successivi. Undici anni dopo, nel 1987, gli statunitensi riuscirono a dosare la diossina nel sangue e si iniziò ad analizzare le provette italiane. Nel libro i risultati li illustra il professor Pier Alberto Bertazzi, tra i massimi esperti mondiali sugli effetti della diossina. «Un effetto accertato è la cloracne: nella zona A l’ha avuta il 48 per cento dei bambini. Più significativo è l’incremento di particolari tumori come linfomi e leucemie: il 40 per cento in più di quello che ci si attendeva, 18 casi in più nel corso di trent’anni».

Aborti politici
E la questione delle malformazioni? Per i giornali di quei mesi i feti erano spacciati: sarebbero nati dei mostri. La Stampa propose l’aborto obbligatorio per le gestanti di Seveso, che avrebbero dovuto comportarsi da persone «mature» e «consapevoli». Su Avvenire e Solidarietà intervenne con decisione Dionigi Tettamanzi: «L’aborto eugenetico nei casi non sicuramente diagnosticati comporta il rischio di sopprimere esseri umani sani o addirittura sanissimi». Il sacerdote notò anche le «gravi responsabilità» di una certa stampa che «diffonde notizie allarmanti e non documentate».

Alla fine si registrarono in tutto 42 aborti terapeutici e 4 spontanei. «Aborti politici» secondo l’allora primario di Ostetricia e Ginecologia dell’Ospedale di Desio, Angelo Corti, che intervistato da Solidarietà disse: «Le donne che sono venute qui sono state informate che la diossina produce malformazioni nel 50 per cento dei casi, il che sarebbe davvero una catastrofe nazionale». Due cose sono certe invece: l’indagine fatta a suo tempo non mise in luce un aumento di bambini focomelici. Non ci fu nessun “mostro in pancia”: i 42 feti abortiti furono esaminati e non fu trovata traccia di danni. E la notizia, proprio come accade oggi, fu liquidata in trafiletti scarni e nascosti tra le pagine interne dei giornali.

Foto Rcs

Tags: AbortoComunione e Liberazioneseveso
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