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Novanta giorni in fuga nella foresta. Così Ruth si è salvata da Boko Haram

La cattura, il parto, il Corano e l'indomita Leah Sharibu. Parla la donna che dopo cinque anni è riuscita a fuggire dai terroristi. Sopravvivendo alla fame e alle belve con il suo bimbo di tre anni

Caterina Giojelli
27/03/2019 - 3:00
Esteri
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La foto premiata dal World Press Photo 2018 Contest, è stata scattata da Adam Ferguson per il New York Times, e mostra Aisha, una delle ragazze rapite da Boko Haram, assegnata a soli 14 anni a una missione di attentato suicida: invece di farsi esplodere la ragazza riuscì a fuggire e chiedere aiuto

È sopravvissuta a 90 giorni di vagabondaggio nella foresta della morte, nutrendosi di foglie e acqua, ha visto morire di stenti otto giovani madri e i loro bambini, fuggiti come lei quella oscura notte di inizio ottobre. Scappavano nel bosco, scappavano da Boko Haram, negli occhi le compagne rimaste prigioniere al campo come l’indomita Leah Sharibu, in braccio i bambini avuti dai terroristi che le avevano rapite e ridotte a spose schiave. L’hanno ritrovata i soldati a gennaio scorso, stretta al figlioletto di tre anni ai piedi di una montagna rocciosa nello stato di Gombe, a circa sessanta chilometri dal luogo dove per cinque anni visse sposa e prigioniera di Boko Haram. Questa è la storia pazzesca di Ruth, raccolta da The Punch, il massimo quotidiano della Nigeria.

L’INCUBO DELLE BOMBE

Ruth non è il suo vero nome, e incontrarla non è stato facile per i giornalisti. Il giorno in cui era stata fissata l’intervista, due giovani ragazze armate di ordigni esplosivi hanno attaccato la comunità di fedeli di Shuwa, riuniti per la messa domenicale presso la chiesa cattolica di St Pius. Fortunatamente non è morto nessuno: la parrocchia della diocesi di Maiduguri, situata al confine dello stato del Borno con lo stato di Adamawa conta circa diecimila fedeli, poteva essere una strage invece le bombe sono esplose a pochi metri dal cancello della chiesa, le kamikaze ferite e arrestate. Durante quel trambusto Ruth ha imballato i suoi vestiti e ha cercato di scappare, convinta che i suoi rapitori l’avessero ritrovata. Ci è voluto del tempo per spiegarle che Boko Haram non era tornato per lei e convincerla a parlare, assicurandole l’anonimato.

LA CONQUISTA DI MUBI, LA CATTURA DI RUTH

«Sono nata a Shuwa, ho frequentato la Demonstration Primary School e la scuola secondaria governativa. Ma non avendo soldi ho dovuto abbandonare gli studi e sono finita a vendere abiti usati al mercato di Mubi». Ruth racconta che aveva solo vent’anni il giorno in cui Boko Haram attaccò la città e si alzarono nel cielo gli elicotteri lasciando cadere una pioggia di bombe: in otto fuggirono verso le montagne nel disperato tentativo di raggiungere il confine con il Camerun. Ma la fuga venne presto arrestata dai combattenti. «C’era una ragazza cristiana con noi. Le hanno detto di togliersi la gonna perché era troppo corta ma lei ha rifiutato. Ed è stata uccisa». Ruth rimase segregata per tre giorni in una delle caserme militari occupate dai terroristi per poi venire trasportata su un camion nella foresta di Sambisa. Arrivati a Gwazza, i prigionieri di Mubi furono mischiati alle ragazze di Chibok, costrette a seguire gli insorti ovunque andassero perché considerate merce preziosa per negoziare con il governo nigeriano. Una volta arrivate nella foresta «ci è stato detto che i cristiani sono nostri nemici, i musulmani i nostri fratelli e sorelle e Abubakar Shekau (leader della setta Boko Haran) il nostro sommo padre. Siamo stati convertiti all’islam. Hanno iniziato a indottrinarci alla dottrina coranica due volte a settimana».

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LA SORELLA SGOZZATA, I SACCHI DI RISO, IL CORANO

Ruth non aveva nessuno. I suoi genitori erano morti molti anni prima che fosse catturata e sua sorella Ngozi era stata brutalmente sgozzata durante i raid su Mubi: era incinta, si era rifiutata di abiurare la fede cristiana, per questo fu uccisa e i suoi due bambini piccoli vennero portati nella foresta. Ecco cosa sapeva Ruth di Boko Haram il giorno in cui iniziò i suoi cinque anni di prigionia in quella che doveva essere una ex base militare del governo nigeriano. Imparò presto a sostituire i vestiti consunti con i sacchi di riso e a cibarsi di frutta e cetrioli. Non vide mai Shekau: il leader dell’accampamento, Amir, sosteneva che si trovasse in Arabia Saudita. «Ogni volta che i soldati partivano per la guerra, ci chiedevano di pregare con il Corano per la loro vittoria. Ogni volta che tornavano, ci dicevano che alcuni di loro erano morti e che si trovavano con Allah in paradiso». Ruth iniziò presto a pensare come scappare, «ma poi ho dato alla luce un bambino».

IL PARTO DI ADAMU MOHAMMED

L’uomo l’aveva adocchiata fin dal giorno della sua cattura. Ruth fu costretta a sposarlo durante una cerimonia improvvisata al campo fra sette prigioniere e sette terroristi. «Non ci hanno violentato, non è consentito loro guardare una ragazza che non è loro sposa. Chiunque fosse ritenuto colpevole di stupro sarebbe stato ucciso. Non ho nemmeno vissuto con l’uomo con cui mi hanno sposato. La prassi era che gli uomini sarebbero venuti a visitarci e sarebbero tornati indietro. Quando ho partorito, ho usato un pezzo di lamiera ondulata di ferro per recidere il cordone ombelicale. Non c’era un’ostetrica. Adamu Mohammed è nato nella mia cella».

LA NOTTE DELLA FUGA

Non c’erano solo uomini di colore nel campo, ma anche uomini bianchi. I malati, racconta Ruth, venivano visitati regolarmente da un medico, i bambini addestrati all’uso delle armi, a volte toccava anche alle donne, ubriacate prima di compiere missioni suicide. A tre ragazze “infedeli” vennero legate bombe attorno al corpo, furono portate via e nessuno seppe più nulla di loro. L’opportunità di scappare si è presentata una notte di inizio ottobre, quando il bimbo di Ruth aveva ormai tre anni. Altre otto ragazze, tre di Chibok, avevano deciso di unirsi alla fuga, ciascuna con un figlio in braccio da allattare. «C’erano oltre cento soldati di guardia. Ma la notte ci ha protetto, siamo riuscite a saltare oltre al recinto e inoltrarci nella foresta». E qui inizia la seconda parte della storia di Ruth.

IL VIAGGIO NELLA FORESTA DELLA MORTE

«Non c’era cibo, i bambini cominciarono a morire uno dopo l’altro. Ben presto anche le madri più deboli iniziarono a cadere nella boscaglia. A due mesi dalla fuga sei ragazze erano morte, quattro in un giorno solo. Eravamo rimaste solo io, il mio bambino e un’altra ragazza a cui era morto il figlioletto». Ruth vagò per un altro mese, pensando ai corpi delle madri e dei bambini lasciati in pasto alle fiere, mangiando foglie, bevendo acqua dai torrenti, «non abbiamo incontrato nessuno per tutto il viaggio. Di notte sentivamo il ruggito delle bestie feroci ma non ci hanno mai attaccato». Il viaggio terminò a gennaio di quest’anno, i soldati le ritrovarono avvolte nei sacchi di riso e le portarono subito all’ospedale della base militare vicina. La compagna di viaggio di Ruth morì subito dopo.

RUTH VIENE A SAPERE CHE PER TUTTI ERA MORTA

Una mattina Ruth uscì dalla caserma, voleva comprare con i soldi che le avevano dato i soldati alcuni vestiti per sé e suo figlio. Ma appena superato il cancello si trovò davanti un parente che lavorava nei Federal Road Safety Corps: l’uomo non credeva ai suoi occhi, le raccontò che per la sua famiglia lei era morta anni prima durante la presa di Mubi e che in suo onore erano già state celebrate le esequie. «Mi ha portato da sua moglie e mi ha dato il suo cellulare. Non appena sono arrivata in caserma, ho informato i soldati che avevo incontrato i miei parenti. Mi hanno portato a casa mia a Shuwa. Mia zia mi ha accolto a casa. Ero felice, mi sentivo di nuovo viva».

«LEAH È VIVA E PREGA OGNI GIORNO»

Quando le raccontarono cosa era accaduto in quegli anni e le mostrarono la foto di Leah Sharibu, Ruth riconobbe subito la ragazza che l’aveva aiutata durante la prigionia. «È Leah. Ha rifiutato di convertirsi all’islam. Un piccolo muro separava le nostre celle ma abbiamo potuto parlare. Esortava a pregare e ci guidava nella preghiera. Ci ha detto che era stata rapita insieme ad altre a Dapchi, nello stato di Yobe. Dopo aver partorito stavo malissimo. Un giorno Leah mi disse che Dio poteva guarirmi, mi posò una mano sul ventre e pregò per me. Lei lo fa spesso, prega ogni giorno, dice che c’è un Dio che veglia su di noi». Ruth racconta che Leah veniva considerata al campo una infedele, non poteva mangiare, cucinare con le altre, non frequentava le lezioni islamiche, ma come le altre ragazze di Dapchi “serviva” a Boko Haram per chiedere riscatti e scambiare prigionieri. Per questo non era stata maltrattata né data in sposa a un combattente. «Sono sicura che è viva, era viva quando l’ho lasciata lì. Ha una fede incrollabile e un carattere forte e non ha mai smesso di pregare per tutti noi».

IL CORAGGIO DI RUTH

La storia di Ruth è stata immediatamente ritenuta vera dal capo del distretto della città di Duhu, Mustapha Sanusi, chiamato Jarma Mubi, che si occupa di organizzare i rimpatri e il reintegro in comunità dei sopravvissuti e i pentiti di Boko Haram. Anche sua sorella è stata rapita dai terroristi: non solo Ruth l’ha incontrata, fornendo descrizioni e particolari inequivocabili per identificarla, ma ha anche raccontato la sua storia. Quella di una ragazza come tante al campo costretta a convertirsi, incinta del secondo figlio di un terrorista. Impensabile per le forze nigeriane, spiega Mubi, attaccare la foresta, dove vivono circa duecento comunità e migliaia di cittadini sotto il controllo di Boko Haram. Sambisa è diventata anche un immenso mercato della droga. Ogni tanto la foresta sputa fuori qualche relitto umano, tossicodipendente o disperato. A volte ragazze come Ruth, un figlioletto di tre anni, un coraggio più grande del terrore.

Foto Ansa

Tags: Boko HaramchibokNigeria
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