Non sempre la giustizia merita il «massimo rispetto» (vedi il caso Pell)

Di Raymond de Souza
22 Aprile 2020
Nei tre anni di persecuzione del cardinale, la Sala stampa della Santa Sede ha continuato a ribadire fiducia nel sistema penale australiano. Abitudine pericolosa
Il cardinale George Pell all'ingresso al tribunale di Melbourne durante il processo per abusi

Per gentile concessione del Catholic Herald, proponiamo di seguito in una nostra traduzione un articolo di padre Raymond de Souza, sacerdote dell’arcidiocesi di Kingston, Ontario, e direttore di Convivium Magazine, apparso il 17 aprile 2020 nel sito del settimanale cattolico britannico (che dal prossimo maggio diventerà mensile). La versione originale inglese è disponibile in questa pagina.

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Una delle strane costanti della turbolenta persecuzione del cardinale George Pell è stato il fatto che, a prescindere da quale fosse l’ultimo suo bizzarro sviluppo, la Sala stampa della Santa Sede ha continuato a esprimere sempre il suo «massimo rispetto» per il sistema della giustizia australiano.

Da principio, sembrava la solita bugia da ufficio stampa. In occasione della recente visita del nuovo presidente dell’Argentina, per esempio, la Sala stampa della Santa Sede ha fatto sapere che il Santo Padre aveva discusso di aborto con lui, che si batte per la liberalizzazione della legge sull’aborto del paese. Ma non ne avevano parlato. Papa Francesco non aveva sollevato il tema. È stata una trovata maldestra. Imbarazzante ma “business as usual”.

Ma dopo quasi tre anni, quel «massimo rispetto» era più difficile da comprendere. In tutta l’ampiezza e la profondità della curia romana quante persone ci sono che hanno un minimo di familiarità con la giustizia penale australiana? Su cosa si fondava questo «massimo rispetto»?

Mi azzarderei a dire che l’unico processo penale australiano di cui la maggior parte dei curiali abbiano mai sentito qualcosa sia quello di Lindy Chamberlain – il caso “dingo”. Fu un colossale fallimento giudiziario che vide una madre innocente imprigionata ingiustamente per tre anni per l’omicidio di suo figlio. Il sistema della giustizia australiana è riuscito a scagionarla pienamente solo nel 2012, trentadue anni dopo quella morte.

È una cosa sbagliata e pericolosa per la Santa Sede esprimere «massimo rispetto» per i sistemi giudiziari riguardo a casi particolari. Quel che intende la Santa Sede probabilmente è che il sistema australiano – o italiano, o britannico, o americano – quanto meno mira alla giustizia, diversamente da quelli della Cina o dell’Arabia Saudita.

Ma non conta quanto possa essere buono in teoria un sistema di giustizia penale: in un caso particolare può sempre essere piegato a fini iniqui. Questo gli italiani dovrebbero saperlo più di tutti gli altri, visto che per decenni è stato denunciato, e dai massimi livelli, un uso corrotto della giustizia penale per scopi partigiani. È sufficiente ricordare che il presidente del Consiglio Giulio Andreotti nel 2002 fu condannato per complicità in omicidio sebbene il presunto killer venne prosciolto. La Suprema corte italiana lo assolse nel 2003.

Perciò esprimere ripetutamente «massimo rispetto» per qualunque sistema in riferimento a un caso particolare crea confusione. Non è solo un’innocua chiacchiera diplomatica. Se in un processo particolare un particolare imputato viene trattato in modo ingiusto, continuare a dichiarare «massimo rispetto» rende difficile, se non impossibile, per il processo canonico della Chiesa giungere a un esito diverso ed equo. E questo varrebbe per qualunque imputato che non abbia avuto la capacità di ricorrere contro la propria condanna davanti all’Alta Corte, come ha fatto il cardinal Pell.

Nel caso Pell le professioni di «massimo rispetto» hanno sfiorato il grottesco, dal momento che sarebbe stato difficile trovare un singolo cardinale o vescovo di curia che non pensasse che a Melbourne si stesse perpetrando una mostruosa ingiustizia. Malgrado quel che diceva la Santa Sede, dentro la curia c’era ben poco rispetto per la giustizia australiana in questo caso.

Un altro arcivescovo australiano, Philip Wilson di Adelaide, è stato ritenuto colpevole di aver coperto abusi sessuali solo per essere assolto in secondo grado nel 2018. Il giudice di appello ha detto che non si poteva condannare Wilson come capro espiatorio per lo scandalo degli abusi sessuali del clero. Anche qui, rispettabile mica tanto.

E non c’è solo l’Australia. Il cardinale di Lione Philippe Barbarin è stato condannato per aver coperto abusi sessuali nonostante i suoi molti coimputati per la stessa accusa e nello stesso processo siano stati assolti. La condanna di Barbarin è stata ribaltata in appello ed è chiaro che se non fosse stato un cardinale non sarebbe mai stato incriminato. Si è dimesso comunque.

I «rispettabili» sistemi di giustizia penale condannano regolarmente innocenti, specialmente quando si tratta di presunti crimini sui minori. In Canada per più di vent’anni persone innocenti sono state ingiustamente accusate e condannate per stupri e omicidi di bambini; madri e padri sono stati erroneamente giudicati colpevoli di avere ucciso i loro stessi figli a causa delle scorrettezze dell’ufficio del coroner. Difficile immaginare un abuso più profondo del potere dello Stato: gente innocente mandata in galera, reputazioni distrutte, famiglie spaccate, bambini traumatizzati e colpevoli rimessi in libertà. La giustizia penale canadese merita il «massimo rispetto»?

In America il diritto a un giusto processo è di fatto sparito. Il potere dello Stato delle procure è talmente spaventoso che meno del 3 per cento delle incriminazioni penali finisce a processo. Quasi tutte si concludono in patteggiamenti a netto svantaggio degli imputati nei confronti dello Stato; è prevista perfino una “penalità di processo”: sentenze più dure per chi insiste con il proprio diritto a un dibattimento.

Esistono venerate istituzioni americane – per non dire di un intero sottogenere di film di Hollywood – dedicate a smontare casi di malagiustizia, compresi alcuni sfociati in condanne a morte. I vertici di entrambi i partiti denunciano regolarmente la sottomissione della giustizia penale a scopi politici da parte dell’Fbi e del dipartimento della Giustizia.

Nel Regno Unito, essere un ex primo ministro non comporta alcuna protezione da azioni legali gravemente infamanti e infondate. Non basta nemmeno essere morti. La polizia del Wiltshire ha organizzato una conferenza stampa all’esterno della casa di Ted Heath, sollevando accuse di pedofilia nei confronti dell’ex primo ministro. Si trattava in realtà di una calunnia grossolana, poi terminata in un processo contro la presunta vittima che aveva raggirato un poliziotto boccalone, incompetente e forse pure in malafede.

La giustizia può essere pervertita in qualunque caso, specialmente quelli con imputati di alto profilo per reati sui minori. Nei fatti, la giustizia viene spesso corrotta, perfino in paesi ritenuti rispettabili. La Santa Sede, il cui sistema di giustizia è più antico di quello di qualunque altro Stato, deve avere la lucidità per vederlo e il coraggio di dirlo.

Foto Ansa

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