Non interverrò, non avrò, non farò: la recessione della politica (e dell’io)

Di Annalisa Teggi
18 Novembre 2012
La ritirata della nostra politica rispecchia la solitudine dell’uomo moderno, tutto intento a sottolineare la propria piccolezza. Ci vorrebbe un Chesterton o un Guareschi

Qualche giorno fa il quotidiano la Repubblica fotografava la sintesi della cronaca politica italiana in due pagine dai titoli meravigliosamente accordati su una medesima nota, indice del fatto che la cronaca è davvero ciò che accade, e che i fatti letteralmente parlano, al di là dei commenti sulle notizie. Ecco cosa campeggiava in neretto: come esordio una dichiarazione del premier Mario Monti in merito alle questioni sulla legge elettorale: «Non costringetemi a intervenire»; più sotto i nota bene di Franco Battiato, in merito alla sua carica di assessore alla cultura della regione Sicilia: «Non avrò né stipendio, né auto blu. Non chiamatemi assessore»; meno composto e riservato nella pagina a fianco il faccione di Beppe Grillo: «Non faremo le primarie»; sotto di lui a chiudere la sarabanda Matteo Renzi: «Se perdo non sarò ministro». Un sovraffolamento di non così fitto me lo ricordo solo nell’esordio del canto XIII dell’Inferno di Dante, quello che parla del suicida Pier delle Vigne. Dante comincia, appunto, quel canto seminando dei non a piene mani: descrive il paesaggio al contrario, dicendo cosa non c’è. E così facendo il poeta ti mette già dentro la testa del suicida, scopre il suo nervo dolente e straziato, come a dire: tutto l’orizzonte attorno a me è diventato così opprimente e falso, invivibile, che l’unica possibilità rimasta per me era dire non a me stesso. E non appena Pier delle Vigne prende parola e parla di sé in prima persona si sente che è ancora intrappolato nello stretto recinto di quei pensieri che lo hanno spinto a negare la vita: ribadisce la sua grande e instancabile dedizione al lavoro, ricorda l’invidia degli altri che s’infiammò per distruggere il suo ben fare, portandolo a uno sdegno tale da diventare ingiusto contro se stesso. Quando l’io gioca in difesa muore. Più ingigantisce le rivendicazioni puntigliose (e magari giuste) sui fatti che lo riguardano più rimpicciolisce sé fino a sparire. Non c’è dubbio che questa tattica difensiva sia scelta come via più auspicabile in tempi di crisi come il nostro, perché ha la falsa apparenza di mostrarsi come più pragmatica di altre visioni più coraggiose. E infatti noi siamo in recessione. Non tanto e non solo nel senso economico, ma nel senso più propriamente umano. Retrocediamo, andiamo all’indietro a rincantucciarci in una piccola gabbia fatta di piccoli particolarismi personali, credendo così di tutelare e rafforzare la nostra persona, ma ottenendo l’esatto opposto. Quella che noi crediamo sia una lente d’ingrandimento, uno spazio di accresciuta autorevolezza, diventa invece una palizzata che ci chiude in un angusto recinto.

IL MIO DOLORE, LA MIA PRIGIONE. Mi è capitato di recente di trovarmi nella sala d’attesa di un ambulatorio medico, in compagnia di silenziosi sconosciuti che come me aspettavano di essere visitati; si trattava di un ambulatorio ortopedico e, dunque, per il tipo di patologie connesse (braccia e gambe ingessate, collari al collo) era evidente anche esteriormente il fatto che qualcosa di dolente ci accomunasse. Appeso alla parete di fronte a me c’era uno di quegli aforismi che – intuisco – dovrebbero servire ad addolcire l’atmosfera sempre implicitamente triste dell’ambulatorio, con eleganti lettere da libro di fiabe recitava così: «Non giudicare le mie azioni e le mie scelte, perché solo io ho attraversato il dolore che ha portato ad esse». Ecco che quando l’io si aggrappa a venerare la presupposta roccaforte dei propri particolarismi, in realtà si isola e si spegne. Perché quelle parole millantavano eroismo, ma dichiaravano solitudine. E, cosa ancora più grave, istigavano il pensiero di una solitudine che rimpicciolisce il vero e semplice orizzonte delle cose. La verità è che il mio dolore (o qualsiasi altro fatto) non mi parla solo del mio dolore. Ma se io innalzo il mio dolore particolare a unica e grande autorità capace di definire lo spessore della mia persona mi ritrovo in prigione, perché potrò ritagliarmi il mio spazio solo a forza di non, cioè arroccandomi alla mia diversità rispetto a qualsiasi tema di confronto comune. Il signor Chesterton, che amava i paradossi, diceva che dalla valle un uomo vede grandi cose, mentre da un picco vede solo cose piccole. È una disquisizione ottica di non poco conto. Solo in uno spazio di comune condivisione si danno alla vista cose grandi, anche riguardo a noi stessi. E, invece, ingigantendo la nostra piccolezza tutto attorno diventa più piccolo. Il mondo della politica sembra riflettere in pieno la trappola di questa visione distorta: non c’è più alcuna valle, ma solo picchi. Più i politici ci parlano in termini concreti e specifici, più siamo indotti a valutarli credibili. Niente paroloni ambiziosi, ma programmi strategicamente mirati a innalzare picchi partendo da piccoli bisogni per stanare, isolare e identificare gli infiniti sottogruppi di quella gran massa di gente che abita la valle dei moderati.

LA DISCESA DI OBAMA TRA IL POPOLO. Alcuni esperti che si occupano di semantica politica hanno snocciolato statistiche dettagliatissime sulle parole usate durante i tre dibattiti televisivi tra il neo rieletto presidente Barack Obama e il suo diretto avversario Mitt Romney. E la statistica, con il suo algido e analitico distacco, si è sorprendentemente resa conto di ciò che molti altri (opinionisti, professori e gente comune) non hanno visto a colpo d’occhio, cioè che i due diretti avversari erano d’accordo su molto. Sui verbi ad esempio, quelli più usati da entrambi sono stati gli stessi: do, have, get, say. Fare, avere, ottenere, dire. Ma anche su quelli meno usati erano d’accordo: believe (che è credere, nel senso affermativo di credere in qualcosa) è sperduto in un piccolo cantuccio. Guarda caso, poi, l’avverbio più usato è stato anch’esso il medesimo per entrambi: not. E il problema della negazione non è solo che è negativa, ma soprattutto che separa, distingue e isola. Però quando è stato il momento di rivolgersi alla nazione non più con l’occhio da cacciatore di uomini della classe media, bensì come presidente di tutti, Obama ha lasciato i picchi di gradimento di parole come affari, piccola impresa, tasse ed è sceso a valle. È ritornato nella grande spianata di un terreno che doveva indicare come comune all’intero e variegato popolo americano e lo ha fatto, stando in mezzo a loro a mostrare grandi cose: il discorso pronunciato appena avuta conferma della rielezione traboccava di speranza. Fosse anche pura strategia di comunicazione importa meno del fatto che da sempre questa è l’unica strategia vincente. E questo vuol dir qualcosa.

LA RICERCA DELLA FELICITÀ. Gli uomini vogliono l’America. Per i più questa espressione è un’illusoria frase fatta, ma chiunque si ritrovi concretamente investito della carica di presidente degli Stati Uniti non può aggirare quel gigantesco monumento ingombrante che è la Dichiarazione d’Indipendenza. Quella faccenda di non poco conto che riguarda il ritenere di per sé evidenti certe verità, come il fatto «che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi ci sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità». Se anche il modo di dire «vuoi l’America» si è ridotto a pura retorica o a una vana illusione di grandezza e successo personale, continua comunque a ribadire che toccando certe corde l’uomo si ricorda che c’è una incrollabile parte di sé che non è in recessione. Quel manifesto politico dichiara che la bandiera dell’uomo è fatta di strisce orizzontali con in alto un ritaglio di stelle; un’uguaglianza che non appiattisce, ma che permette di evidenziare la grande statura di ogni uomo. Stando coi piedi nella propria fetta di terra l’uomo si sente proteso verso l’alto, ogni piccola cosa – bella e brutta – lo ferisce con un bisogno di grandezza che non è monomania, ma necessità di una comprensione totale e autentica. Indipendentemente dai suoi personali picchi. Dagli alti e bassi. Da crisi e rilancio. I pochi operai di Pomigliano si sentono davvero piccoli solo se si parla di loro in termini di reintegro e mobilità: allora sì che sono 19 pedine spostate dal bianco e nero di grandi scacchisti, abbiano essi il nome della grande industria o dei grandi sindacati.

LA GRANDEZZA DEL MONDO PICCOLO. L’errore politico più abominevole è quello di costruire picchi isolati che ci costringano a trattare noi stessi come cose piccole. Ma è sufficiente l’esperienza comune per frantumare questo errore ottico. Se ne accorse quel grande giornalista che intitolò Mondo piccolo i suoi racconti. Nessuno meglio di Giovannino Guareschi sa cos’è la valle, la Bassa. Ne scriveva la cronaca avendo nel suo vocabolario – diceva egli stesso – non più di duecento parole; e tra quelle parole ci si accorge che – statisticamente – spesso saltano fuori onestà, libertà, pietà, bontà, fede. Girando in bicicletta per la gran valle della piccola gente vedeva grandi cose, dietro piccoli fatti: «Cronista di provincia, son marinaio d’acqua dolce e costeggio solo le rive del mio torrente pur navigando a tutta velatura in un burrascoso mare di guai. Chiudono il mio orizzonte, turrito sbarramento, inviolabile a me nocchiero di piccioletta barca, queste colonne d’Ercole che han nome “fatterello”, “fatto” e “fattaccio”, il solito eterno rosario della cronaca, che io anche stavolta andrò lentamente sgranando cantando vita e miracoli d’ogni chicco». La clamorosa evidenza di cui si accorge il cronista di provincia è che il chicco non si è mai sentito piccolo. Si è sempre sentito un seme che la vita con le sue imprevedibili annaffiate matura. Talvolta il chicco ha solo bisogno di una scampanata per ricordarselo. È così nella geografia dei piccoli paesi della Bassa: grandi campi, qualche agglomerato di case e, riconoscibile in mezzo ad esse, il campanile. Accade sempre qualcosa di clamoroso quando le campane si mettono in moto.

LE CAMPANE DI DON CAMILLO. Quella famosa scena che fa parte del film Don Camillo e l’onorevole Peppone in molti ce la ricordiamo. Don Camillo si accorge che le piccole schermaglie politiche a suon di slogan tipo «Lista Peppone, lista baffone» sono frecce a corta gittata. Sono uno scoppio che porta ciascuno a chiudersi nel proprio guscio, sia esso la chiesa o il palazzo del Comune. Invece, il seme inestirpabile dell’uomo è che funziona proprio come un campanile; se tiri le corde giuste si metterà a scampanare a più non posso. Oppure: se metti la musica giusta, si ricorderà qual è il vero canto della vita. E così, anziché schiacciare Peppone, don Camillo lo innesca: fa risuonare dal campanile le note de Il Piave mormorava durante il comizio del cittadino-lavoratore Peppone. Tanto basta. Il facinoroso si ricorda di essere stato un uomo di parte sì, ma come soldato al fronte. E si ricorda di aver dato tutto in nome dell’idea che vale la pena lanciare l’anima oltre l’ostacolo. Parla da combattente vero. Da operaio, verrebbe da attualizzare – cioè da uomo che si riconosce parte di una grande opera.

@AlisaTeggi

Articoli correlati

1 commento

  1. graciela zocchi

    Baccione,

    MIO

I commenti sono chiusi.