Non avrai altro vaccino all’infuori di me. La religione del Covid-19

Di Piero Vietti
16 Giugno 2020
L’attesa messianica per il farmaco antivirus, la liturgia del distanziamento e gli scienziati-sacerdoti. L'ascesa di un nuovo culto (con tanto di dogmi e superstizioni). Intervista al teologo Kurt Appel

Articolo tratto dal numero di giugno 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

La società occidentale ha da tempo messo la religione in un angolo, la guarda con sospetto e sufficienza, quando non la critica e attacca apertamente, eppure proprio in essa «si celano nuove forme di religiosità sempre più dissennate, che finiscono per assumere i tratti della superstizione», dice a Tempi Kurt Appel, professore di Teologia cattolica e di Filosofia della religione all’Università di Vienna. Sono forme che mutano nome, sacerdoti e liturgia a seconda dei tempi che viviamo: l’ultima versione di questa Religione universale, dice il teologo austriaco che ha insegnato anche in diverse università italiane, «si potrebbe chiamare Covid-19».

La pandemia portata dal nuovo coronavirus ci ha fatti precipitare in un’incertezza che prima non conoscevamo, la paura del contagio ha nutrito le nostre giornate, ci siamo comportati come ci è stato detto e ora attendiamo la liberazione, una cura, un vaccino. «Abbiamo cominciato a credere che la scienza sia onnipotente», dice Appel, «ma chi conosce il metodo scientifico sa che non è così, che procede per tentativi, ipotesi, errori, piccoli passi. Invece noi aspettiamo dalla scienza la soluzione di tutti i mali». L’attesa messianica dell’uomo contemporaneo, spiega, «non è più per il ritorno di Cristo, ma per l’arrivo del vaccino. Gli esperti e gli scienziati divengono così una nuova forma di clero da cui attendiamo istruzioni per la salvezza. Il distanziamento sociale è un culto, mascherine e guanti in lattice l’abito liturgico da indossare». 

Nella comunità scientifica c’è ottimismo, ma la verità è che nessuno è veramente certo di quando arriverà il vaccino, e se arriverà: «Sento dire che “dobbiamo aspettare”. E io spero che arrivi, non sono un ativaccinista né ho simpaita per le dichiarazioni di Trump o Bolsonaro a riguardo, ma non posso nemmeno costruire la mia vita su una cosa di cui non si sa niente».

Banalmente, dice Appel, «manca il buon senso: noi vogliamo dominare tutto, fino in fondo, e la scienza deve servire a tale scopo: per questo e diviene una nuova forma di religione irrazionale». È la tentazione della messa in sicurezza della vita, di cui parlava il filosofo Silvano Petrosino sullo scorso numero di Tempi. «Covid-19 è la religione della ricerca della sicurezza al 100 per cento», prosegue il teologo austriaco. «Gli scienziati vogliono, e devono volere, questo 100 per cento e il coronavirus è proprio un’offesa per chi cerca la sicurezza assoluta: ecco spiegato anche l’eccesso di cautela per cui ci ripetono che non si sa se uno che ha avuto il virus può contagiarsi di nuovo, che non si sa se i bambini possono essere vettori della malattia… Io penso che sia molto più umana la sicurezza al 99 per cento, dove quell’1 per cento che manca è in mano a Dio». 

Più sani, ma non immortali

Servirebbe la fede. «Manca il significato della vita», dice Appel, che è anche direttore della piattaforma di ricerca interdisciplinare Religion and Transformation in Contemporary European Society. «Viviamo in un mondo virtualizzato, un eterno presente dove nessuno deve invecchiare né morire, dove non c’è futuro. Questo è lo sfondo su cui ci muoviamo. Abbiamo perso la buona vita, che consiste nella coscienza della propria mortalità. Bene che possiamo vivere più a lungo e più sani, ma non siamo immortali». Ce ne siamo dimenticati? Crediamo di esserlo? «Una parte fondamentale della vita è fare i conti con la morte. Questo si è perso, perché si è perso il cristianesimo, che ci faceva confrontare con la morte». 

Per ragioni famigliari Appel passa molto tempo vicino a Bergamo, ha visto da vicino il dramma delle settimane in cui gli ospedali lombardi straripavano, le colonne di mezzi militari con le bare dei morti, eppure è critico di quello che definisce «un clima di terrore» che si è instaurato in Europa e in particolare in Italia: «Non voglio passare per cinico, ma a volte dovremmo pensare che oltre sessanta milioni di italiani sono ancora vivi. È giusto stare attenti ed evitare possibilità di contagio, ma non possiamo vivere come se “l’altro” fosse sempre un pericolo, qualcuno che ci terrorizza con la sua sola presenza. Non avremo mai la sicurezza assoluta. Sarà decisivo vedere come gestiremo la riapertura delle scuole. Stiamo facendo passare l’idea che l’altro è un inferno da evitare, così la scuola non può più essere luogo di formazione, ma luogo del pericolo letale, da sostituire perciò attraverso la virtualità mediatica. Guai a quei piccoli che cercano ancora un contatto fisico! Bisogna rinchiuderli, separarli, fare indossare loro le mascherine». 

Ad Appel non piace l’eccesso di «virtualità mediatica» in cui abbiamo vissuto questi mesi: «Uso un’analogia imperfetta, ma è come se soffrissimo tutti di una sorta di autismo: stiamo davanti ai nostri computer e creiamo mondi virtuali, la conseguenza è che ordineremo sempre più cose online, resteremo di fronte ai nostri schermi luminosi, ci ritireremo sempre più in noi stessi. Così i legami sociali si affievoliscono, lo spazio pubblico muore». 

Appel parla del pericolo di crescere una generazione virtualizzata, e sebbene possa apparire poco teologica, dice che la sua «preoccupazione è vedere chiudere i ristoranti, uno spazio pubblico con un valore enorme per la cultura europea per la possibilità di incontro e convivialità che permettono». 

L’unica alternativa

La tentazione della delazione verso chi non rispetta le nuove norme e del controllo di ogni nostro spostamento da parte delle autorità sono diventati possibilità molto concrete. Nessun negazionismo o complottismo da parte di Appel, semmai uno sguardo realista che prova a tenere conto di tutto quello che c’è in ballo: «Mi chiedo se i provvedimenti in vigore per combattere questa malattia, curata sempre meglio e che colpisce pochissimo la giovane generazione, non rischino di distruggere i fondamenti della nostra società, della nostra economia, della nostra politica, della nostra libertà e della nostra cultura. Nei giorni in cui ci era impedito di uscire di casa se non per emergenze certificate, mi ha colpito che il sistema preso a modello fosse quello cinese, così diverso dalla cultura e tradizione europea. Serve un modello diverso, basato sulla responsabilità». 

E bisogna accettare il rischio di quell’1 per cento (almeno) di insicurezza che non sta nelle nostre mani. Per questo ricominciare a farsi le domande giuste, sulla vita e sulla morte, può essere un buon inizio: «In Italia soprattutto c’è ancora una Chiesa viva e con risorse. Non più culturalmente egemone, è vero, ma quella dell’egemonia a mio parere è ormai una tentazione che deve essere abbandonata. La Chiesa deve prendere sul serio la responsabilità che ha: come collante e rete sociale, perché la società civile non si sgretoli, e perché sola può porre la domanda sul significato della vita e della morte all’uomo contemporaneo, e dargli la risposta. Il mondo secolare ha il nichilismo, ma non regge più. L’unica alternativa credibile per la ricostruzione dopo la pandemia è la Chiesa».

@pierovietti

Foto Ansa

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