La campagna elettorale in corso rivela la disgregazione della Repubblica: un processo avviato con la non soluzione dei nodi posti dalla fine della Guerra fredda, concretizzatosi poi nella politicizzazione della giustizia nel ’92 e non risolto nel ventennio seguente sia per le inadeguatezze del centrodestra sia per le viltà del centrosinistra nonché quelle di uno sfiatato establishment capace solo di promuovere personalità evanescenti come Mario Segni o poi Mario Monti. Una crisi così grave dello Stato come quella che stiamo vivendo non può non provocare diffuse paure e connessi sentimenti irrazionali, innanzitutto tra i giovani colpiti dallo sbandamento della discussione pubblica. La principale forma che questi sentimenti, derivanti dalla disgregazione, vengono assumendo è la diffusione dell’idea che i tecnici possano assolvere a una funzione palingenetica della società: si è iniziato con i pm e a questi si sono affiancati adesso anche certi superesperti spesso mediocri in dottrina e ancor più in pratica. La speranza “tecnica” è ampiamente smentita dai fatti. La politicizzazione della magistratura ben lungi dal risanare la società ha indotto più generali fenomeni d’impazzimento della giustizia: dall’Ilva all’Aquila, dalle indagini sulla “trattativa” del governo Ciampi fino alla feroce rissa intorno al cadavere di un martire come Giovanni Falcone. Per quel che riguarda la superiorità degli economisti nella gestione delle cose collettive basta considerare il mondo delle nostre banche, dove – con la crescente deresponsabilizzazione delle proprietà (anche quelle maledette pubbliche) – si è affermato il festival del “tecnico”, per capire quali guasti su questa via attendano tutta la nazione. Però, al di là delle evidenze razionali, la sacrosanta idea che le questioni della politica vadano risolte innanzitutto dalla politica e che si tratti non di svuotare ma di riformare lo Stato per consentire questo processo, pur di fatto ispirando ancora parte decisiva dell’elettorato sia di destra sia di sinistra, si scontra con tendenze opposte particolarmente dinamiche che segnano ogni giorno qualche punto: come si può constatare riflettendo sull’impresentabile vicenda degli “impresentabili” quando persone spesso di qualità sia nel Pd sia nel Pdl sia nell’Udc, già colpite da scatenate persecuzioni mediatico-giudiziarie, sono state sottoposte anche a una sommaria mannaia politica.
Questo vento irrazionale fonda la base di proposte vagamente deliranti come quelle degli Ingroia o dei Grillo ma anche, in larga parte, di quelle avanzate da persone che si vorrebbero riflessive come lo stesso Monti o Umberto Ambrosoli. Queste tendenze vengono alimentate anche da ambienti internazionali politici e finanziari che antepongono le esigenze della semplificazione della governance di una realtà così importante geostrategicamente ed economicamente come l’Italia, al consolidamento di una nostra sovranità fondata su quella popolare. Vediamo così certi “statisti” passare dal massimo dell’attenzione in casa propria su come vota il metalmeccanico dell’Ohio o il coltivatore della Bassa Sassonia, a lezioncine rivolte a Roma che dovrebbe affidarsi a qualche nerboruto pm o a qualche arrogante professore. Non è mai saggio arrendersi allo sconforto, e in questo senso è opportuno riflettere anche come non vi siano le condizioni – come vi erano nella prima metà del Novecento sconvolta da guerre e disoccupazioni – per le avventure più efferate. Va sempre ricordato come gli elettori siano dotati di un’intelligenza considerevole e siano talvolta in grado di aprire improvvisamente prospettive in situazioni che parevano irreparabili. Tutto vero. Anche se le condizioni per una politica razionale sono sempre più ristrette e anche le scelte che in qualche modo tengono aperto qualche spiraglio, sono segnate da confusione, volgarità, scarsa efficienza nella loro gestione. Ogni tanto viene da pensare a quei beati paesi dove almeno i golpe sono stati fatti da generali come quelli turchi d’antan con interventi circoscritti negli obiettivi e nei tempi, cosicché la società non dovette soffrire per intere generazioni per torture inflitte da circuiti mediatico-giudiziari privi di quel minimo di responsabilizzazione necessaria in una società aperta e civile. Ma poi non si può non ricordare come di paradosso in paradosso la Germania degli anni Venti, quella che vide scrivere nella colta città di Weimar la costituzione che l’impiccò, segnata da una crisi dello Stato analoga a quella che stiamo vivendo, finì nel precipizio irrimediabile. Ecco perché rinunciando a qualche bon mot, alle idee brillanti di chi ogni giorno cambia opinione, alle “azioni parallele” di geni senza popolo, è bene concentrarsi sulle poche solide – anche quando opache – certezze che ci restano: scegliendo per prima cosa tra chi vuole fondare la democrazia sul popolo, e chi cerca altre vie, siano quelle delle manette o di sprezzanti lezioncine date da (più o meno) sapienti interessati solo a primazie oligarchiche.