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New York Times sotto assedio: ha osato fare informazione sui “bambini trans”

I collaboratori che chiedono in massa al giornale la censura di ogni dubbio sul tema. La reazione inattesa della direzione. L’inquietudine di Andrew Sullivan

Redazione
21/02/2023 - 5:35
Esteri
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Manifestazione delle organizzazioni per i diritti dei trans davanti al New York Times
Il cartello luminoso esposto da diverse organizzazioni arcobaleno davanti al New York Times il 15 febbraio scorso per stigmatizzare alcuni articoli del quotidiano critici rispetto alla medicalizzazione dei ”bambini trans“

Può il New York Times permettersi di dare spazio a domande e dubbi che emergono sempre più frequentemente (e clamorosamente) nelle comunità scientifica, educativa, sociale riguardo ai trattamenti medici troppo disinvoltamente riservati ai cosiddetti “bambini trans”? Può almeno il giornale di riferimento d’America, la bibbia progressista paladina di tutti i nuovi diritti, osare chiedersi, alla luce dei dati, se per caso non ci si sia spinti un po’ troppo in là con terapie ormonali, mastectomie, transizioni di genere somministrati a ragazzini e adolescenti in crisi di identità?

La risposta è no, non può. Il New York Times non deve dare spazio sulle questioni di genere ad altre “narrazioni” che non siano quella dominante del trans-tutti-e-subito. E il bello – o il brutto – è che a invocare il bavaglio per le opinioni “non conforming” sull’argomento non sono solo i militanti delle associazioni Lgbtqi+, ma anche gli stessi collaboratori del New York Times. È esattamente questo, infatti, il senso della lettera aperta sottoscritta la settimana scorsa da oltre 1.000 firme del prestigioso quotidiano americano, uscita in non casuale coincidenza con un altro appello promosso da più di 100 organizzazioni arcobaleno e simili, con annessa manifestazione davanti alla sede del giornale, per pretendere dal New York Times meno libertà di espressione e più “fedeltà alla linea”. (Sono gli stessi giornalisti firmatari della lettera ad ammettere di avere «coordinato le tempistiche» delle uscite con gli attivisti arcobaleno).

Una perfetta «manovra da campus»

Insomma, contro il New York Times è andata in scena una perfetta «manovra da campus», come l’ha efficacemente definita nel suo substack The Weekly Dish Andrew Sullivan, apprezzato giornalista che non ha paura di sfidare le etichette di conservatore e omosessuale che si ritrova addosso. Il riferimento è ovviamente alla “cancel culture” che nei campus delle università americane sta facendo strage di idee, opere, autori e professori del presente e del passato rei di “offendere” qualcuno.

Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome
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Il fatto grave, sottolinea Sullivan, è che nella lettera aperta i mille e rotti collaboratori del New York Times fanno riferimento con nomi e cognomi ai colleghi ritenuti colpevoli con i loro pezzi e i loro commenti usciti negli ultimi mesi di «lasciarsi guidare dai gruppi d’odio di estrema destra» e di avere così iniettato un inaccettabile «editorial bias» nella linea del giornale. I giornalisti messi alla gogna, per la cronaca, sono Emily Bazelon, Ross Douthat, Katie Baker e Azeen Ghorayshi, e basta una rapida ricerca Google per verificare con i propri occhi quanto pregiudizio transfobico ci sia nei loro scritti.

La dura reazione della direzione

Nella lettera aperta contro i quattro reprobi «non ci sono critiche fattuali», evidenzia Sullivan. Semplicemente, costoro si sono permessi di dare voce a persone e associazioni di persone pentite di aver inflitto ai propri figli o giovani pazienti terapie che hanno avuto conseguenze terribili sul loro sviluppo fisico e umano. Perfino l’uso da parte di Emily Bazelon del termine “paziente zero” in riferimento al primo minore sottoposto a una terapia di riassegnazione di genere in Olanda è stigmatizzato dai firmatari della lettara-gogna in quanto «espressione che denigra la transness come una malattia da temere».

Di positivo c’è stavolta la risposta non arrendevole della direzione del New York Times, «la reazione di cui avremmo sempre avuto bisogno da parte delle istituzioni liberali sotto assedio e che non c’è mai stata», scrive Sullivan. Si legge infatti nel memo inviato giovedì scorso alla redazione del quotidiano dal direttore esecutivo Joe Kahn e dalla responsabile delle pagine delle opinioni Kathleen Kingsbury:

«Non è insolito che gruppi esterni critichino il nostro modo di trattare determinati temi o che organizzino manifestazioni per influenzare il nostro giornalismo. In questo caso, tuttavia, membri del nostro staff e collaboratori del Times hanno preso parte all’azione. La loro lettera di protesta comprende attacchi diretti a diversi nostri colleghi, di cui si fanno i nomi. La partecipazione a una simile campagna è contraria alla lettera e allo spirito del nostro regolamento etico. […] Abbiamo una regola chiara che proibisce ai giornalisti del Times di attacarsi a vicenda pubblicamente o di esprimere il proprio sostegno a simili attacchi. […] Non accoglieremo, e non tollereremo, la partecipazione di giornalisti del Times a proteste organizzate da gruppi di pressione o ad attacchi a colleghi sui social media e in altri forum pubblici».

Memo from Joe Kahn to NYT staff responding to yesterday’s letter re: trans coverage.

Times leadership says the paper “will not tolerate, participation by Times journalists in protests organized by advocacy groups or attacks on colleagues on social media and other public forums.” pic.twitter.com/bjLruJVPnf

— Max Tani (@maxwelltani) February 16, 2023

No, la scienza non è unanime

In gioco comunque non c’è solo la correttezza delle relazioni tra colleghi e dei giornalisti verso l’azienda per cui lavorano. Il merito stesso delle obiezioni sollevate dai firmatari della lettera è incredibile, a maggior ragione per un organo di informazione che dovrebbe avere tra i suoi scopi principali proprio quello di sollevare domande e dubbi, anche sulle questioni più delicate, come è appunto il cosiddetto “approccio affermativo” ai problemi di identità di genere dei giovani. Senza contare che «a oggi», ricorda Sullivan, il New York Times «ha pubblicato una montagna di articoli carichi di empatia verso le persone trans: più di ottocento solo l’anno scorso».

Ma soprattutto, ancora Sullivan,

«il punto della lettera non è che gli articoli contenessero errori, ma proprio il fatto che siano stati pubblicati. Non avrebbero dovuto avere spazio perché l’opposizione alle terapie di transizione per i bambini con disforia di genere è illegittima in sé, e il compito dei giornalisti che già lo sanno è sopprimere la discussione anziché darne notizia. “La scienza è concorde”, recitava il cartello luminoso davanti al New York Times, come se davvero la scienza potesse mai essere “concorde”, e come se il giornalismo consistesse nell’ignorare e nel censurare le controversie, invece che raccontarle e pubblicarle».

Il più grande scandalo nella storia del movimento gay?

Oltre a ribadire nel suo commento una lunga serie di dati ed episodi che confermano l’opportunità di qualche seria domanda sulla medicalizzazione dei presunti “bambini trans”, l’autore di The Weekly Dish nota poi una coincidenza temporale «molto strana». Proprio la settimana prossima, riferisce Sullivan, uscirà un nuovo libro sul Tavistock Centre, la clinica responsabile del trattamento medico e psicologico dei bambini con disforia di genere in Gran Bretagna. Il saggio «è scritto da una giornalista donna e progressista, di un importante trasmissione di informazione britannica, Newsnight». Sullivan ne riporta un brano da un’anticipazione ospitata dal Times di Londra:

«I medici ricordano diversi casi di giovani che avevano subìto bullismo omofobico a scuola o a casa e in seguito si erano identificati come trans. Secondo il medico Anastassis Spiliadis, “tante volte” i famigliari dicevano: “Grazie a Dio mio figlio è trans e non gay o lesbica”. Le ragazze dicevano: “Quando sento la parola ‘lesbica’ mi sento in imbarazzo”, e i ragazzi parlavano ai dottori del disgusto che provavano nell’essere attratti da altri ragazzi.

Quando nel 2012 il Gids [Gender Identity Development Service] domandò della loro sessualità agli adolescenti che facevano ricorso al servizio, oltre il 90 per cento delle femmine e l’80 per cento dei maschi risposero che erano attratti dallo stesso sesso o bisessuali. Bristow arrivò a pensare che il Gids stesse somministrando “terapie di conversione per ragazzi gay” e girava una battutaccia nel team: che “al ritmo con cui procede il Gids non resteranno più persone gay”».

Commenta Sullivan:

«Pensateci per un secondo. E ricordate che le organizzazioni gay fanno il tifo per questo; e che diverse firme gay hanno messo i loro nomi su quella lettera. Quale colossale giorno del giudizio li aspetta. Potrebbe senz’altro trattarsi del più grande scandalo nella storia del movimento per i diritti gay».

Tags: andrew sullivanbambini transcancel culturegendernew york timesPoliticamente Correttotrangenderwoke
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