Nel menu dell’informazione ogni giorno le stesse notizie
Articolo tratto dal numero di aprile 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Quando ero un giornalista in servizio permanente effettivo, ho affrontato senza discutere ogni argomento, pure quelli che mi parevano assurdi. Tranne in una occasione. Mi rifiutai di vergare un pezzo su Boris Becker prossimo sindaco di Londra, seguendo lo scoop pubblicato da un giornale concorrente.
Il grande inviato-editorialista che aveva sparato la notizia – ancora scorrazza per giornali e tv – aveva confuso Boris Becker con Boris Johnson (il ciuffone è simile). E nessuno dei comandanti in redazione si era posto la domanda: ma perché dovrebbero candidare a sindaco di Londra un tedesco residente nel principato di Monaco (capisci a me)? Perché ha vinto tre volte Wimbledon? Belin, allora Sampras dovrebbe occupare Downing Street e Federer Buckingham Palace.
Racconto questo piccolo aneddoto perché introduce all’assioma seguente: l’informazione in Italia al tempo del coronavirus rivela la drammatica inconsistenza di chi la governa.
Io, da bravo soldato, ho sempre eseguito gli ordini. Avevo questa regola: se voi siete direttori, con, vice eccetera e io non sono un cazzo, avete ragione voi. Se ho ragione io, scatta il punto uno. Però rivendicavo una libertà di giudizio sul loro modo di fare informazione: il novanta per cento delle idee partorite nelle direzioni provoca solo un inutile spreco di carta (o palinsesti o pagine web).
Questa non è una lezione di giornalismo, figuriamoci, questo è lo scoramento di un lettore che si accorge della veridicità del suo vecchio giudizio. Il menu dell’informazione, ora, si ripete stanco e irritante.
La conta dei morti e dei contagiati; il tributo ai medici e a chi sta in prima linea; le storie di chi vive in casa; le storie di chi lavora a casa (o fuori, meno); le storie di chi canta alla finestra (meno, ora); di chi appende cartelli per dirmi che andrà tutto bene (meno perché abbiamo capito che è una presa per il culo); l’intervista al virologo che invece di illuminarci ci complica ancora di più l’esistenza (caro Burioni di turno, una sola cosa devi fare: trovare il vaccino; ora, labora et non scassarmi la minchia); la guida ai sintomi del coronavirus che aumentano come i contagi e mi aumentano l’ansia (adesso controllo anche la cacca con la lente); le istruzioni per lavarmi le mani; le istruzioni per la crema giusta per le mani, che, a furia di lavarle, si sono piagate; le istruzioni per trattare i vestiti dopo essere usciti (fai prima a bruciarli); le istruzioni per trattare frutta, verdura e alimenti in genere (fai prima a spararti direttamente in vena l’amuchina, se ce l’hai).
Io lo capisco, bisogna riempire i menabò e i palinsesti anche ai tempi di Covid-19, però adesso come faccio ad andare nel piccolo market dell’indiano all’angolo dopo il pezzo di Scurati sul Corsera che ha così descritto la fila davanti a un negozietto analogo? «In coda per il pane (…) vedo uomini e donne che fino a ieri lo disdegnavano perché sprovvisto della loro marca preferita di crusca (…) Ricavate da brandelli di tessuto con il quale, fino a ieri, proteggevano le piante esotiche dei loro terrazzi, garze sfilacciate che pendono dai loro volti con la malinconia floscia di scampoli di un’epoca finita».
Ma di chi parli, Antonio mio, di che città, di che persone? Giornalisti, scrittori, politici, conduttori, cantanti, medici, si affannano a riempirci una vita che non c’è più. Il dramma loro, dei media che li ospitano, ma soprattutto il nostro, è che già dopo una settimana la loro idea di vita era già bella piena. Di fuffa. Perché non solo di amuchina, Burioni, cartelli, canzoni, istruzioni, statistiche e crusca vive l’uomo.
Foto Ansa
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!