Mose e tangenti. «La corruzione non si combatte moltiplicando le regole e i guardiani. Anzi»
«La madre della corruzione, vent’anni fa come oggi, non è solo l’avidità umana, ma la complessità delle leggi. Se devi bussare a cento porte invocando cento leggi diverse per ottenere un provvedimento è quasi inevitabile che qualcuna resti chiusa e qualcuno ti venga a dire che devi imparare a oliarla». Così il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, magistrato dal 1977, ha commentato l’inchiesta sul presunto giro di tangenti per la costruzione del Mose, l’indomani dell’esplosione del “caso” sui media. Non certo un’uscita peregrina se si considera l’autorevolezza del giudice che ha condotto le inchieste sui reati di Tangentopoli negli anni Novanta. A spiegare a tempi.it la «complessità delle leggi» italiane, in particolare del mastodontico Codice degli appalti, composto da più di 600 articoli, è Serena Sileoni, vicedirettore dell’Istituto Bruno Leoni, esperta di diritto pubblico comparato.
È davvero così difficile partecipare a una gara pubblica qui in Italia?
Facile certo non è, tanto che normalmente serve l’intermediazione di un professionista. Il Codice degli appalti è un esempio chiaro di come non basta applicare le migliori tecniche di redazione delle leggi per garantire la certezza e la chiarezza delle regole. In astratto, il Codice doveva essere un testo utile a raccogliere in maniera organica, esclusiva e compiuta le regole di un settore particolarmente complesso e delicato come quello degli appalti. Ma dal 2006 – anno di entrata in vigore – a oggi, quello che doveva essere un testo unico ha subìto 22 modifiche per decreto legge (compreso il decreto ancora in conversione sugli 80 euro), 12 per legge, 9 per decreto legislativo, 7 per altri tipi di interventi. Senza contare gli interventi esterni al testo, quelli che non modificano il codice ma modificano il contesto normativo in cui il codice si inserisce, intervenendo solitamente a introdurre deroghe ed eccezioni. L’ultimo esempio è il “decreto cultura e turismo” appena approvato, che deroga alla legislazione sugli appalti per Pompei.
Cosa rischiano le imprese?
Partecipare a una gara è un percorso a ostacoli interpretativi e ricostruttivi delle regole vigenti. Il rischio è di lasciare indietro chi non ha forza e risorse per superare quegli ostacoli, indipendentemente dalle capacità imprenditoriali necessarie a vincere quella gara, e di polverizzare la procedura in mille frammenti e accidenti di percorso, spesso anche giudiziari, che ne fanno perdere l’unitarietà, la rapidità di esecuzione, l’economicità e, soprattutto, la trasparenza.
La scarsa chiarezza della legge è un problema solo italiano?
È un problema comune a tutti gli Stati che – e in Europa non ci sono grandi eccezioni – si sono votati alla pratica di risolvere e prevenire ogni minimo problema con nuove regole e nuovi interventi dell’autorità pubblica, facendo della legislazione, più che la panacea per risolvere, l’oppio per sedare ogni presunto malessere. Non è un caso che nel primo rapporto sulla corruzione nei paesi membri dell’Unione Europea, pubblicato pochi mesi fa a cura della Commissione, vi sia un capitolo specifico dedicato alla corruzione nel settore degli appalti pubblici. Un settore che coinvolge in media un quinto del Pil nazionale è ovvio che – data l’importanza economica da un lato e la rilevanza della discrezionalità amministrativa dall’altro – diventi un settore ad alto rischio di corruzione, non solo in Italia.
In Italia cosa non funziona nella gestione pubblica degli appalti, quelli di ampie dimensioni in particolare?
Non funziona il fatto che un quinto delle risorse nazionali – stando sempre alla stima europea – debba essere convogliato in lavori pubblici, assegnato da autorità pubbliche e pagato dai contribuenti, secondo procedure che vorrebbero sulla carta essere trasparenti ma che, per come sono sviluppate e interpretate, non riescono ad esserlo. Con la conseguenza di consegnare i procedimenti amministrativi alla discrezionalità interpretativa e attuativa degli agenti pubblici. I grandi eventi, poi, sono stati sempre trattati come eventi eccezionali, costruendo attorno ad essi una disciplina parallela a quella ordinaria, nella convinzione che le cose difficili vanno trattate “difficilmente”. Nulla di più lontano dal senso originario del diritto.
Eppure il premier Renzi si è detto convinto che «il problema della corruzione non sono le regole che non ci sono, ma quelle che non si rispettano, il problema sono i ladri, non le regole». È d’accordo?
I ladri agiscono dove ci sono occasioni per agire. Il contesto regolatorio e amministrativo italiano, unito alle vischiosità giudiziarie, crea quelle occasioni.
C’è bisogno del nuovo pacchetto di misure anticorruzione annunciato da Renzi?
Renzi ha anche annunciato, in uno dei famosi 44 punti per la riforma della pubblica amministrazione, la riforma del Codice degli appalti. Cosa voglia dire un nuovo pacchetto anticorruzione e la riforma del Codice degli appalti non mi è chiaro e forse non lo è nemmeno al governo, ma di sicuro mi è chiaro che pensare di risolvere il problema della corruzione con lo slogan di nuove regole e nuovi guardiani, a nemmeno due anni dal precedente pacchetto anticorruzione, vuol dire non avere nessuna seria idea in testa.
E del nuovo commissario dai superpoteri Raffaele Cantone c’era bisogno?
A meno di non volere una nuova autorità che serve solo a deresponsabilizzare le altre e a far credere che si è fatto qualcosa, direi proprio di no.
Che cosa va fatto, dunque?
In primo luogo, a livello di comunicazione politica, bisogna smettere di farne una battaglia degli onesti contro i disonesti, pensando che la cacciata di chi attualmente è in odore di disonestà sia una soluzione anche per il futuro. Un ambiente favorevole all’incertezza delle regole, alla proliferazione dei procedimenti, alla discrezionalità dei controllori è un ambiente favorevole alla disonestà, e non basta stigmatizzare gli attori presenti per bonificarlo. Bisogna smettere, poi, di invocare sempre nuove regole e riforme, come quella del Codice degli appalti, appena annunciata dal viceministro alle infrastrutture e trasporti Nencini, per reagire alla vicenda del Mose. Servono meno soldi pubblici da elargire in lavori pubblici, meno regole nelle quali lasciare che la discrezionalità pubblica si invischi con i tentativi di corruzione, più certezza nelle conseguenze giuridiche delle proprie azioni, specie nel rapporto tra attori pubblici e privati. Ma se c’è una parte che non ha ancora voluto, ad esempio, una legge che regoli l’attività di pressione e lobbying, questa è proprio la parte politica.
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