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Mori: «Mai stato a conoscenze di una trattativa tra Stato e Mafia». Libro Ingroia «inconcepibile in Stato di diritto»

Il generale a Palermo continua a smontare le ricostruzioni sul presunto patto tra istituzioni e Cosa Nostra. «Abbiamo battuto la Mafia con i fatti, non con contatti sottobanco o accordi indimostrabili»

Redazione
10/06/2013 - 13:35
Interni
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A Palermo il generale Mario Mori ha ripreso le dichiarazioni spontanee nel processo che lo vede imputato per favoreggiamento aggravatato per la mancata cattura nel 1995 di Bernardo Provenzano, interrotte nella scorsa udienza (ve ne avevamo parlato qui).
Anche oggi il generale è stato molto puntuale nel ricostruire la vicenda della presunta trattativa Stato mafia e altrettanto esplicito nel demolire la ricostruzione dell’accusa. Ricordiamo che il pm Antonino Di Matteo ha chiesto per lui nove anni di carcere e sei anni e mezzo per il colonnello Mauro Obinu.
I legali di Mori hanno attaccato a testa bassa il pm Antonio Ingoria, dicendo che il pm nel suo libro Io so si è permesso di esprime re giudizi sul processo Mori prima che questo arrivasse a sentenza. Una cosa «inconcepibile in uno stato di diritto».
Mori ha concluso il suo intervento con queste parole: «Signori del Tribunale, il colonnello Obinu ed io, non accettando a suo tempo la prescrizione maturata per le ipotesi di reato ascritteci, come uomini delle istituzioni abbiamo ritenuto doveroso difenderci davanti al nostro giudice naturale; e l’atteggiamento tenuto dalla nostra difesa in tutto l’arco temporale del dibattimento ritengo lo abbia confermato. Attendiamo quindi serenamente il vostro giudizio, intimamente persuasi, comunque, di avere sempre operato correttamente, non solo nel doveroso rispetto delle leggi, ma anche e soprattutto nell’osservanza delle regole deontologiche poste a base dei nostri convincimenti, della nostre scelte professionali e del nostro status di militari».
Di seguito pubblichiamo in sintesi alcuni dei passaggi principali della memoria difensiva del generale Mori. Al termine le parole dei suoi legali.

Mori: «L'arresto di Riina è stato il più grande errore della mia vita»

RAPPORTI FORMALI CON MANICNO. «Visti i continui riferimenti giornalistici e le più recenti ipotesi giudiziarie che riguardano la stagione delle stragi, preciso di avere conosciuto personalmente l’onorevole Nicola Mancino, allora ministro dell’Interno in carica, il 19 luglio 1992, nel corso di una trasmissione televisiva, diretta da Bruno Vespa, connessa alla strage di via D’Amelio avvenuta in quello stesso giorno. Ho rivisto Mancino qualche altra volta nel corso degli anni, ma tra noi non sono mai intercorsi rapporti che andassero oltre quelli strettamente formali. Non ho mai ricevuto da Mancino, nelle diverse funzioni istituzionali da lui rivestite, direttive, richieste o sollecitazioni di qualsiasi tipo, neppure in forma mediata, così pure, ovviamente, dal Capo della Polizia dell’epoca, il prefetto Vincenzo Parisi».
«Mancino, ripetutamente, ed anche in questa sede, si è lamentato del fatto che non lo avrei informato dei miei contatti con Vito Ciancimino e nemmeno della cattura di Salvatore Riina. Sull’identità di una sua fonte informativa, la norma consente all’ufficiale di pg di mantenere il segreto, che reputo sia un elemento essenziale per l’efficace conduzione delle operazioni. Non vedo quindi perché un colonnello dei Carabinieri, trattandosi di un’attività in corso, avrebbe dovuto parteciparla addirittura al ministro dell’Interno».
«Per quanto riguarda poi la notizia della cattura del Riina, la valutazione circa l’opportunità e quindi l’onere d’indirizzare un’informativa ovvero una comunicazione agli organismi istituzionali di vertice, e quindi anche al Ministro dell’Interno, in base al Regolamento dell’Arma dei Carabinieri, spetta esclusivamente al Comando Generale. A me incombeva l’onere d’informare la gerarchia, cosa che ovviamente feci tempestivamente. Se Mancino riteneva di non essere stato messo al corrente in maniera corretta di fatti interessanti la sua sfera di competenza o di avere ricevuto la notizia dell’arresto del Riina in ritardo, doveva lamentarsene con altri, non certo con il colonnello Mori».

TRATTATIVA. «Non sono a conoscenza di intese o accordi che possano esserci stati, per scelte di altri appartenenti alle Istituzioni, perché se ne fossi stato informato, a suo tempo ne avrei fatto denuncia, così come mi competeva. Non posso quindi sostenere con dati probanti, che in questi casi sono gli unici che valgono, se una o più trattative vi siano state oppure no. L’unico, chiaro indirizzo di natura politico-amministrativa che possa apparire come una concessione verso Cosa nostra, di cui ho conoscenza è stato quello, operato dal Ministero della Giustizia nel corso dell’autunno del 1993, e proseguito poi nei mesi seguenti, della riduzione del numero dei detenuti sottoposti al 41 bis».
«Sono dell’avviso che l’operazione, così come mi è stato dato conoscere, rientri ampiamente tra le decisioni che la classe dirigente responsabile di un paese possa assumere e di cui debba eventualmente rispondere, ma in sede politica».

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L’OPERATO MIO E DEI ROS. «Parte del processo, al di là delle imputazioni ascrittemi, si basa sul quesito se, ed eventualmente in che termini, vi siano stati contatti e/o trattative tra Stato ed esponenti mafiosi. Trattative che, ove si fossero concretizzate o fossero state tentate, avrebbero avuto lo scopo di porre fine alla stagione stragista iniziata da Cosa nostra, nel marzo del 1992, con l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima. Ho dimostrato che non c’è stata alcuna iniziativa, nelle mie attività, che mirasse a realizzare aspetti finalizzati a quello scopo, e questo vale a maggior ragione per ciò che concerne il colonnello Mauro Obinu e gli altri appartenenti al Ros, che all’epoca, comunque, operavano, nel quadro della normativa vigente, sotto la mia responsabilità di comandante».
«Le potenzialità offensive di Cosa nostra, tra l’arresto di Salvatore Riina, realizzato all’inizio del 1993, e quello di Giuseppe Graviano del gennaio 1994, entrambi eseguiti da reparti dei Carabinieri, erano progressivamente e rapidamente venute meno, in corrispondenza di una sempre più efficace qualità della risposta degli apparati investigativi. Non erano stati quindi i modesti benefici apportati dalle iniziative del ministero della Giustizia nei confronti dei detenuti mafiosi sul 41 bis a fare recedere Cosa nostra dai suoi intenti criminali».

CASTELLO DI CARTE. «Per l’attività da me svolta sono stato sempre abituato a considerare i dati di fatto e non le mere ipotesi, anche se a volte queste possono apparire suggestive, di maggiore presa emotiva ed adattarsi meglio a determinati interessi e convincimenti personali. E i fatti allora dicono che lo scompaginamento di Cosa nostra è avvenuto per l’impegno e la dedizione degli uomini delle Istituzioni, alcuni dei quali hanno pagato di persona questo impegno, e non già per contatti sottobanco o accordi indimostrati ed indimostrabili che, così come presentati anche in questo processo, hanno la fondatezza e l’effettiva consistenza di un castello di carte».

SCENARI E FATTI. Al termine della deposizione di Mori, sono iniziati le arringhe difensive degli avvocati di Mori e Obinu. I legali, Enzo Musco e Basilio Milio, si sono così rivolti al presidente della quarta sezione penale del Tribunale Mario Fontana: «Signori del Tribunale, io in questo processo non ho visto fatti e imputazioni ma scenari. Tanti scenari. Signori giudici, la vostra sentenza scriverà la storia di quegli anni, per una ragione che dimostrerò con dati alla mano. Dimostrerò che non sussiste né una trattativa né una ragion di stato né un accordo, ma anche il costante impegno del Ros per la cattura di Provenzano».
«Non abbiamo bisogno di scenari socio-politico-ideologici. Noi ci difendiamo con i fatti».
«Nessun elemento è emerso a conforto delle dichiarazioni di Riccio. Del resto, fatti di imputazione in questo processo non ne ho visti, solo scenari sono stati prospettati dalla Procura senza elementi d’accusa oggettivi e riscontrabili». L’avvocato Enzo Musco ha attaccato duramente l’ex colonnello Michele Riccio definendolo un «funambolo delle falsificazioni», colpevole di «disonestà morale e intellettuale».
Parlando del libro Io so in cui il pm Ingroia si è avventurato in giudizi sul processo Mori, l’avvocato della difesa Milio ha detto che si tratta di un fatto «inconcepibile in uno stato di diritto».
L’avvocato Milio nella sua arringa ha poi aggiunto: «Mi chiedo perché se già nel 2003 dottore Pignatone aveva detto che escludeva categoricamente che Riccio gli avesse parlato di possibilità concrete di arrestare Provenzano siamo ancora qui, dieci anni dopo, a celebrare un processo che non ha ragione di esistere». «Solo Di Matteo e Ingroia – ha concluso – hanno intravisto nell’operato di Mori e Obinu un comportamento criminale. Altri come Pignatone, Principato e Caselli non hanno visto le cose alla stessa maniera».
Il processo è stato rinviato al 24 giugno per la prosecuzione delle difese.

Tags: antonio ingroiaBernardo ProvenzanoMario Morimauro obinuNicola Mancinoprocesso MoriRosSalvo Limatrattativa Stato-MafiaVito Ciancimino
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