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I gesuiti uccisi in Messico e la missione della Chiesa nel paese dei narcos

Due sacerdoti sono stati assassinati mentre aiutavano un uomo a fuggire dai trafficanti. Droga, povertà, disgregazione sociale in uno dei paesi più pericolosi del mondo. Intervista al portavoce della Compagnia di Gesù in Messico

Paolo Manzo
26/06/2022 - 6:25
Chiesa
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Messico gesuiti
L’esterno della chiesa a Cerocahui, in Messico, dove i due gesuiti sono stati assassinati (foto Ansa)

Lunedì scorso sono stati uccisi all’interno della chiesa di Cerocahui, un paesino della Sierra Tarahumara, nello stato di Chihuahua, in Messico, due sacerdoti gesuiti che tentavano di aiutare un uomo inseguito da narcos armati. Padre Javier Campos e padre Joaquín Mora sono morti in una delle principali regioni produttrici di droga, ma la loro uccisione di sacerdoti è una tragedia ricorrente nel paese del tequila. Già sette preti sono infatti stati assassinati sotto l’attuale amministrazione, entrata in carica nel dicembre 2018. Tempi ha intervistato padre José Francisco Méndez Alcaraz, S.J., padre Pepe come lo conoscono gli amici, il portavoce dei Gesuiti in Messico.

Conosceva padre Javier Campos e padre Joaquín Mora?

Molto bene. Padre Javier Campos lo chiamavamo tutti “il Gallo” perché era solito imitare il canto del gallo e faceva il Chicchirichì anche nei suoi messaggi WhatsApp. Era un uomo molto forte e dedito alla causa della Sierra Tarahumara, dove era il superiore di tutta la nostra missione. Era un uomo affettuoso. Sei mesi fa c’era stata l’ordinazione di un diacono e in quell’occasione ho potuto vivere con lui e vedere il suo rapporto sia con gli indigeni che con i meticci. Il suo calore verso la gente e il rispetto e l’affetto che la gente aveva per lui. Ho frequentato ancora di più Joaquín che era molto semplice. Avrà avuto tre pantaloni e cinque camicie al massimo. Era molto austero. L’ho conosciuto quando era all’Instituto Cultural, una scuola di Tampico, Tamaulipas. Lì andava in una colonia molto povera chiamata Pescadores, dove svolgeva il suo lavoro pastorale e portava gli studenti a fare servizi sociali. Aveva una grande dedizione e la gente lo ricorda ancora oggi. L’ultima scena che posso descrivervi è questa: un uomo era arrivato e gli aveva detto in rarámuri, la lingua degli indigeni della Tarahumara, che era andato a prendere dei soldi per un lavoro fatto ma che non glieli avevano dati. Lui ha cominciato a parlargli. Credo che siano rimasti seduti nel corridoio della casa per almeno un’ora e mezza. Il signore non era convinto di quello che diceva Joaquín che alla finì gli disse: «Ti accompagnerò per scoprire cosa succede e perché non ti danno i soldi dovuti». Questo è l’ultimo ricordo che ho di Joaquín in vita.

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Quali sono le cause di così tanta violenza in Messico?

La prima è la povertà. Molti giovani entrano nel narcotraffico perché dicono che preferiscono avere una vita breve ma in cui possano avere qualcosa da offrire alle loro madri, soprattutto costruire loro una casa dignitosa. La seconda è che qui in Messico i film, il cinema e la televisione enfatizzano il potere che si basa sulle armi, che dà ricchezza economica anche agli adolescenti, un potere in grado di conquistare molte donne. Una comunicazione deleteria che offre questi modelli di eroismo, come la serie Netflix Narcos o la serie La reina del sur. I giovani vogliono essere come loro perché hanno i soldi, ma hanno un impatto negativo perché la via dell’eroismo non è servizio, non è solidarietà, non è sviluppo personale. Si tratta solo di denaro e potere. La terza causa è la disgregazione della struttura sociale. Notiamo sempre più spesso che le persone e le famiglie sono più chiuse in se stesse. In Messico in passato c’era molta solidarietà tra le famiglie, tra i vicini, c’era un tessuto sociale forte. Il senso della comunità era radicato nella tradizione cattolica di vicinato solidale. Quando qualcuno sentiva piangere un bambino o un adulto, i vicini andavano a vedere che succedeva. Ora non lo fanno più, hanno paura e non vogliono essere coinvolti. Quarta e ultima causa è che non abbiamo un leader sociale, politico, al quale tutti guardandolo possano dire: «Questo qui ci aiuterà». Nessuno in cui identificarsi. C’era fiducia in AMLO, ma ha deluso le speranze.

Quali sono le caratteristiche della Sierra Tarahumara, dov’è avvenuto il crimine?

Si tratta di una foresta di conifere, di molte gole, pendii, montagne, poche valli e qualche fiume. È un terreno irregolare e per andare da una comunità all’altra ci vogliono due o tre ore. Le strade sono sterrate e le distanze tra un villaggio e l’altro le rendono insicure. L’insicurezza è anche legata al traffico di droga ma anche alle miniere. Ci sono grandi compagnie minerarie nella zona, messicane e canadesi. E poi c’è la coltivazione sui pendii irregolari della marijuana, ideale perché è seminascosta. I rarámuri sono un popolo che vive nella semplicità. «Non possiamo smettere di ballare, perché se smettiamo il mondo smette di muoversi», dice la loro cosmovisione, molto incentrata sull’armonia con la natura. I rarámuri difendono le loro terre e i loro alberi e, in questa lotta con i taglialegna illegali, molti hanno perso la vita.

Con un governo assente, cosa fa la Chiesa per aiutare i poveri ad avere più sicurezza?

Quando ci sentiamo sicuri osiamo fare cose migliori e per questo, a mio avviso, la sicurezza è un diritto umano fondamentale. La Chiesa fa tante cose. Oggi la Compagnia di Gesù sta aiutando il popolo Tarahumara a svilupparsi, abbiamo collegi per ragazzi rarámuri, una clinica e un ospedale. Poi ci occupiamo di educazione, professionale ma anche religiosa, di valori. A livello nazionale, la Chiesa si mobilita affinché alcuni settori del paese pensino di più al collettivo, al bene comune, alla dottrina sociale della Chiesa. Noi gesuiti abbiamo un progetto chiamato “Questa via per la pace”, che si occupa della ricostruzione del tessuto sociale e nei luoghi in cui questa metodologia è stata applicata, l’esperienza è stata positiva. Poi c’è un piano dell’episcopato messicano, lanciato in occasione della commemorazione del 500° anniversario delle apparizioni della Vergine di Guadalupe, che punta alla ricostruire la società messicana.

Quanti gesuiti ci sono in Messico?

Siamo in 246 distribuiti in 14 Stati. Nel nord, a Tijuana, nella Sierra Tarahumara e nella capitale di Chihuahua. A sud, nello stato di Coahuila. Poi a Torreon, a Tamaulipas, Guadalajara, Jalisco, Guanajuato, Città del Messico, Puebla, Veracruz. Ma siamo presenti anche nello stato di Tabasco, nello Yucatan, nelle città di Merida e Oaxaca, in Chiapas, dove c’è l’altra nostra missione con gli indigeni. Infine ci sono le opere del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati e del Servizio dei Gesuiti per i Migranti, naturalmente, e l’Opera Nazionale della Buona Stampa. E abbiamo Radio Guayana dove la programmazione è parlata in diverse lingue, le lingue indigene del Messico.

Che vuole dire agli italiani?

Non fate uso di droghe. Questa è la prima cosa. Poi voglio ringraziarvi. Abbiamo ricevuto molte espressioni di solidarietà dall’Italia, non solo dal Papa, dal Padre Generale e dalla Chiesa italiana, ma anche da tante persone e organizzazioni. Infine vorrei chiedere una solidarietà continua. Mi sono commosso molto dopo l’arrivo degli africani a Lampedusa per la risposta di solidarietà data dagli italiani. La fraternità è ciò che ci rende umani, quindi quello che vorrei invitarvi a fare è mantenere questa capacità di fraternità, di aprirsi agli altri e di mostrare solidarietà, anche con noi, e di farlo pubblicamente.

Tags: Chiesadrogagesuitimessiconarcos
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