Meno sospetto, più società

Di Giuseppe Monteduro
16 Maggio 2020
Alla radice degli scontri sulla risposta alla crisi sanitaria ci sono due visioni inconciliabili. Le “cose buone” le fa solo lo Stato o ci si può fidare delle persone e della loro iniziativa?
Medici e infermieri del reparto Covid dell’ospedale Humanitas di Rozzano, Milano

Articolo tratto dal numero di maggio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Seppur ancora in piena crisi, sono già iniziate le prime analisi su quel che non ha funzionato in Italia e in particolare in Lombardia, dove il numero di decessi e di contagiati ha gettato nell’ombra e talvolta nel fango il modello sanitario e quindi il modello di sussidiarietà messo in campo. È alquanto difficile con i dati a disposizione dire se negli ospedali a gestione privata siano morte più persone che in quelli a gestione pubblica e per farlo bisognerebbe sapere quali sono state le indicazioni legislastive cui i gestori privati dovevano attenersi e invece avrebbero disatteso. Senza questo è innanzitutto impossibile analizzare quanto avviene. 

Il modello della sussidiarietà, anzi più correttamente il suo principio, si fonda sull’idea che anche al di fuori della burocrazia statale ci possano essere protagonisti della vita sociale, protagonisti che possano produrre benessere per tutti a partire dai propri orientamenti di valore. Su questa concezione si impernia il sistema sanitario lombardo. Ed essendo un principio conseguente ad una concezione antropologica, l’alternativa al modello della sussidiarietà è un’altra concezione antropologica, quella secondo la quale solo la burocrazia pubblica può offrire “azioni di bene” per tutti. La prima alternativa, quella sussidiaria, si fonda sull’idea che la natura sociale delle relazioni umane possa produrre “cose buone”, la seconda poggia sul principio che l’uomo vada continuamente monitorato, per evitare che la sua libera azione sociale possa danneggiare qualcuno. Favorire le cose buone è compito della politica e quindi della burocrazia che in un modello sussidiario diventa ancora più centrale e più responsabile nell’indirizzare lo sviluppo del bene. Dove c’è più società, più libera azione delle persone, c’è anche un sistema burocratico più forte.

Gli agricoltori sanificatori

Cito un esempio avvenuto in un piccolo paesino del salento (San Cassiano). La sanificazione delle vie cittadine è stata svolta, in collaborazione con l’amministrazione comunale, da volontari agricoltori del luogo che hanno messo a disposizione i propri trattori, il proprio tempo e la propria “nuttata”. Come guardare questo fatto ci richiama nuovamente alla radice antropologica. L’evento si ripeterà. La forza di questo gesto non sta (solo) nella collaborazione, ma nel comprendere che l’aver attivato soggettività sociali, avendole rese partecipi di un bene generale, costruisce società più delle rigide regole burocratiche e molto di più di qualunque attesa (preda del lamento) sulle risorse statali che mancano. 

Ora bisogna soffermarsi e non tornare indietro: quand’anche ci fossero le risorse statali e comunali per organizzare burocraticamente il servizio, quel gruppo di agricoltori e allevatori, quella disponibilità va sostenuta, favorita e incoraggiata, perché è il cuore del nostro paese (tant’è che una delle problematiche del Sud sul treno dello sviluppo è la mancata capacità di attivare corpi intermedi che producano beni di interesse generale). 

Un nuovo ruolo, non una resa

Quello che può apparire come un arretramento del ruolo dello Stato o dei suoi apparati, in realtà è un nuovo ruolo, non un abbandono: favorire lo sviluppo di realtà sociali, mettere i cittadini nelle condizioni di associarsi e produrre beni sociali per tutti è una strada lunga, faticosa ma realmente più “sociale”. La strada più breve sarebbe quella di pensare alla pubblica amministrazione come ad un soggetto di comando e non di governo: è apparentemente più facile e senza rischi. Purtroppo la cultura del sospetto secondo cui solo lo Stato o qualche sua articolazione controllata possono produrre cose buone tenendoci al riparo dai rischi è frutto di una concezione antropologica alternativa a quella sussidiaria: controllare e reprimere anziché favorire e correggere. 

Per capire l’insussistenza del dirigismo statalista basterebbe guardare a tutte quelle iniziative legate alla lotta contro la povertà: senza i volontari, le donazioni, le erogazioni liberali, il 90 per cento delle persone che non hanno di cui mangiare non lo avrebbero. E infatti è stata la solidarietà tra persone il vero bonus spesa degli italiani. In aggiunta va detto però che quando ci troviamo di fronte a problemi di marginalità sociale spesso la burocrazia lascia più spazio alle attività sociali, accettando (anche per evidente comodità) che siano altri a sostenere e rispondere ai problemi sociali; se invece parliamo di sanità e scuola ecco che il predatore burocratico torna a farla da padrone. È un problema di cultura sociale e quindi di politica sociale. 

Un principio da difendere

Che le scuole paritarie possano esistere e debbano esistere non verrà dimostrato con il risparmio che pur generano allo Stato (elemento non superficiale) ma solo accettando antropologicamente il modello della sussidiarietà. Per questo è opportuno ricordare che il principio di sussidiarietà non è un modello sanitario (su cui si può discutere), non è (solo ed in primis) una risposta più efficiente e più economicamente vantaggiosa per erogare servizi pubblici, ma rappresenta soprattutto un principio culturale e antropologico in grado di garantire solidarietà (e quindi approssimare maggiore equità sociale), responsabilità (e quindi incentivare al merito) e presenza sociale (e quindi protagonismo). Né il liberismo né il dirigismo statale possono garantire tutto questo e non per una loro inefficienza, ma per un punto di partenza errato: che entrambi ritengono l’azione umana finalizzata esclusivamente all’interesse personale. 

Va da sé che il modello lombardo non è (sic et simpliciter) esportabile altrove, proprio per la ragione stessa con cui è stato costruito. L’unicità del modello lombardo sta proprio nel principio: aver creato un modello in cui il protagonismo sociale delle persone possa esprimersi e non ridursi alla crostata sul sagrato o a mezza giornata di volontariato in qualche piazzetta desolata. Per questo vale la pena difendere il principio di sussidiarietà, per la libertà e il protagonismo sociale di ciascuno di noi. Subsidium, non suspectum.

Foto Ansa

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