La sorpresa di Chesterton. Dal copione all’avventura
Domani, 20 agosto andrà in scena al teatro Galli di Rimini lo spettacolo inaugurale del Meeting 2022, dal titolo “Liberi tutti”. S’ispira a un’opera teatrale di G. K. Chesterton intitolata La sorpresa.
Fu un testo che l’autore scrisse di getto nel 1932 per la compagnia teatrale della sua città, Beaconsfield. Non ne fece una revisione accurata e non andò in scena mentre era vivo.
Per poterlo mettere a disposizione di un vero pubblico, il regista Otello Cenci e Giampiero Pizzol hanno lavorato sul testo realizzando uno spettacolo che rispetta il cuore del messaggio di Chesterton.
Quando tradussi La sorpresa, un passo mi colpì subito.
Loro vogliono la sorpresa. Non sufficienza o sicurezza, ma sorpresa.
“Loro” siamo noi. La gente non vuole sicurezza, ma sorpresa. Davvero? Suona bene, ma è in realtà è una sfida. Perché “sorpresa” non vuol dire Babbo Natale che bussa alla porta con un enorme regalo-tanto-desiderato.
Sorpresa è tutto ciò che non rispetta i nostri piani. Che ci catapulta dai piani agli imprevisti.
Siamo sicuri di volere la sorpresa? Siamo disposti a mollare gli ormeggi delle nostre agende, con tutti gli appuntamenti già schedulati (orribile termine contemporaneo)?
Nonostante i nostri tanti modi di illuderci di avere il controllo, in effetti sì. Siamo fatti per le avventure, non per i copioni.
Un grido onesto fin nel midollo
Per stare di fronte a quest’ipotesi in modo non didascalico, ma entusiasmante, occorre ribaltare lo sguardo lineare e ovvio. In una scrittura privata Chesterton dichiarò che c’era un nesso tra la sua Sorpresa e l’opera di Pirandello. A quest’ultimo autore dobbiamo un grande grazie, perché fu tra chi gridò «il re è nudo» in faccia agli abbagli del progresso e di tutte le presunte sicurezze del XX secolo:
Quando tu riesci a non aver più un ideale, perché osservando la vita sembra un enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai; quando tu non hai più un sentimento, perché sei riuscito a non stimare, a non curare più gli uomini e le cose, e ti manca perciò l’abitudine, che non trovi, e l’occupazione, che sdegni – quando tu, in una parola, vivrai senza la vita, penserai senza un pensiero, sentirai senza cuore – allora tu non saprai che fare: sarai un viandante senza casa, un uccello senza nido. Io sono così. (Lettera alla sorella Lina, 13 ottobre 1886)
È un grido onesto fin nel midollo. È la voce del figliol prodigo lontano da casa. Ecco, la Sorpresa di Chesterton è una pupazzata nell’accezione opposta a come la intende Pirandello nella lettera alla sorella. Opposta come sguardo, identica come ferita aperta. Potremmo dire che è la storia del figliol prodigo, ma narrata dal padre che lo aspetta a casa, sempre e nonostante tutto.
L’uomo ha bisogno di essere messo di fronte all’ipotesi clamorosa che Dio non è assente, non è morto, ma è come un papà che gioca a nascondino col figlio. Aspetta, pazientemente, di essere scovato dietro ogni cantuccio di vita. Fa un passo indietro perché il vero amore consiste in quel paradosso che ogni mamma e papà vivono sulla propria pelle: figlio, ti amo così tanto che devo lasciarti andare.
«Voglio che siano, e non che facciano»
Dunque, La sorpresa di Chesterton comincia con un Burattinaio che ha costruito dei pupazzi unici e ha pensato per loro una storia meravigliosa, in cui ciascuno ha un ruolo essenziale. È una storia a lieto fine e brevissima. A lieto fine, perché tutti i pupazzi seguono il copione previsto; breve, perché ciascun pupazzo è perfetto nel suo ruolo e dunque tutto fila liscio.
Ma il Burattinaio non è contento di questa storia così perfetta. E lo confessa a un Frate che ha assistito allo spettacolo dei pupazzi:
Ecco, vedete, io li conosco. Li conosco molto bene. […] Credetemi non sono affatto personaggi semplici, anche se per un po’ hanno fatto parte di una storia molto semplice. Sono molto appassionati, molto complicati, insomma è gente davvero reale; sono capaci di fare altre migliaia di cose, oltre quelle che hanno fatto sulla scena.
Il Frate, allora, stuzzica il Burattinaio: se i pupazzi hanno fatto tutto bene, perché non essere soddisfatti di ciò che è andato in scena? Ed ecco che il tema della libertà esplode, dalla voce del Burattinaio.
Loro potevano fare il bene e potrebbero fare il bene. Nel loro intimo sono capaci di fare esattamente quello che hanno fatto nella commedia, questa gente che io conosco così bene. Ce l’hanno dentro … eppure non hanno niente dentro di loro.
[…] Voglio che siano, e non che facciano. Io voglio che essi esistano.
L’amore s’inchina alla libertà
In quest’ultima battuta non c’è più la voce di un burattinaio, ma di un Padre che è disposto a lasciare aperta la porta di casa, disposto a vedere suo figlio andarsene lontano pur di dargli la possibilità di essere se stesso fino in fondo. Di essere una persona, non più personaggio. E solo una persona può fare anche il passo libero di riconoscere, alla fine di tutte le sue peripezie, il Padre che lo aspetta a casa – da sempre.
«L’amore desidera la personalità; quindi l’amore desidera la separazione. […] In nessuna altra filosofia Dio gioisce proprio del fatto di aver frammentato l’universo in piccole anime viventi», scrisse Chesterton in Ortodossia, anticipando il cuore del messaggio de La sorpresa. L’amore tollera la prova della libertà, anzi s’inchina alla libertà. Col rischio che quella trama bella, semplice e felice si complichi in modo imprevedibile.
E noi dovremmo ricordarcelo più spesso, quando ci lamentiamo delle cose da fare: siamo stati catapultati nella storia per essere, non per fare. Siamo dentro un’avventura di vita libera, in cui è in gioco tutto di noi, una scoperta che si approfondisce a ogni inciampo e a ogni gran bel salto.
Che ne sarà dunque di questi personaggi che sono diventati persone? Che ne sarà di noi? Siamo davvero pronti a una sorpresa?
Foto dall’account Facebook Meeting Rimini
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