Una mostra da fine del mondo quella organizzata da Casa Testori al Meeting di Rimini, Da Martini a Guttuso. Una piazza per sei protagonisti del ‘900 italiano. Più che la passione per l’uomo che quest’anno fa da titolo alla kermesse, nelle sei fenomenali opere di grandi dimensioni offerte allo sguardo del pubblico nel Padiglione A1 risalta l’angoscia per la sua dissoluzione, sconfitta, morte prossima, scomposizione, caduta, invisibilità. Con la parziale eccezione de “Il figliol prodigo” (1929) di Arturo Martini. Drammaticissimo.
Gli sguardi del padre e del figlio
Visti da lontano padre e figlio sembrano due lottatori al momento della presa, e questa è la chiave più vera dell’opera. Da vicino si scopre che gli sguardi non si incontrano: il padre guarda sopra l’orecchio del figlio, il figlio non alza abbastanza lo sguardo. Solida roccia alla quale appoggiarsi è il padre, ma anche rigido; sorregge e tocca con sentimento il corpo del suo ragazzo, ma in lui è un ultimo residuo di alterigia.
Il figlio è tutto movimento e debolezza, più debole del vecchio padre che invece ha gambe robuste da atleta, figura più grande e un panneggio della tunica che ne fa un senatore romano. Smagrito, le costole in evidenza, vestito solo di una pelle di animale che ricorda l’iconografia di san Giovanni Battista, il figlio cerca e respinge insieme l’abbraccio paterno. Due uomini che sentono che il tempo si fa breve, e che devono superare ancora ostacoli interiori per sentirsi insieme. Devono lottare come se fossero ancora avversari, se vogliono abbracciarsi per amore.
Il senso della fine in Renato Guttuso
Senso della fine personale imminente in lancinante contrasto col ciclo della vita che continua nel quadro testamento di Renato Guttuso “Spes contra spem”. Non tragga in inganno la citazione paolina, la speranza di resurrezione di Guttuso è tutta naturalistica; si esprime nella corsa della bambina, unico elemento non statico del quadro, nel nudo di spalle di Marta Marzotto, nei colori vividi e solari coi quali contrasta il grigio della tela cubista riprodotta dentro al quadro. La speranza negativa, cioè la minaccia incombente, sono i mostri del palazzo di Palagonia, che sovrastano oscuri la scena insieme a un’antenna televisiva: minaccia distruttiva non della vita come tale, ma dello spirito, del significato, delle idee profonde incarnate dalla pensosità dei vari personaggi che popolano il quadro.
L’uomo in grumi, l’uomo squartato, massa gibbosa e globosa di argilla smaltata e vetrificata è il “San Sebastiano nero” (1962) di Leoncillo Leonardi, un manifesto di arte informale che fa pensare a quel che resterà dei corpi umani dopo le esplosioni atomiche che la storia sembra oggi preparare e che negli anni Cinquanta e Sessanta corrispondevano alla memoria di Hiroshima e al presente degli esperimenti militari nell’atmosfera.
Il “Miracolo” di Marini al Meeting
Non sono esseri umani ma divinità femminili dell’Olimpo, nonostante quello che l’audioguida suggerisce, le due figure della Giustizia e della Legge di Mario Sironi sulla cui base è stato realizzato il mosaico che si vede a Palazzo di Giustizia a Milano. Non ci sono esseri umani, resi invisibili dal ferro, dai finestrini scuri ma soprattutto dall’insensata e inarrestabile velocità nel Metrò newyorkese di Titina Maselli, otto tele in sequenza crescente per dimensione che esprimono genialmente la non umanità della tecnologia urbana americana.
E per finire, il beffardo “Miracolo” (1952) di Marino Marini. Abbiamo capito dove copia i suoi titoli Maurizio Cattelan. Abbinati indebitamente a questo titolo, i cavalieri disarcionati e i cavalli imbizzarriti o sfiancati dello scultore pistioiese possono far pensare alla caduta da cavallo di Paolo di Tarso e alla visione che ne fa un seguace di Cristo e l’apostolo insostituibile del cristianesimo. Non è così: i cavalieri che perdono l’equilibrio e stanno per cadere al suolo mentre i loro cavalli si agitano con gemiti inesprimibili e smorfie di dolore sono l’uomo che ha voluto domare la natura per i suoi nobili scopi, ma ha miseramente fallito.
Queste opere di Marini sono successive all’esperienza della guerra e ne portano l’orma di pessimismo cosmico. Le soluzioni formali del disarcionamento sono meravigliosamente perfette, i movimenti delle figure disegnano curvilinee che tolgono il fiato. Bellezza terrificante. Unico segno (non guttusiano) di speranza: gli uomini che scivolano di sella con espressione stupita non sono a terra; appaiono fusi al dorso vitale del cavallo, come figlioli prodighi che si aggrappano a madre natura in attesa dell’abbraccio di riconciliazione del Padre.