La preghiera del mattino

Speriamo che funzioni la mediazione di Erdogan. Senza dimenticare chi è

Recep Tayyip Erdogan davanti al tavolo del negoziato tra Russia e Ucraina
Il discorso del presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan al tavolo del negoziato tra Russia e Ucraina riunito a Dolmabahce, 29 marzo 2022 (foto Ansa)

Su Fanpage Ida Artiaco scrive: «Si è appena concluso dopo tre ore l’ultimo round di negoziati tra Russia e Ucraina a Istanbul in Turchia. I colloqui riprenderanno stasera ma qualche passo in avanti sembra sia stato fatto. “Oggi è stato raggiunto il più significativo progresso nei negoziati in corso”, ha detto il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu, come riporta la tv di Stato Trt, aggiungendo che è atteso in futuro un nuovo incontro tra i ministri degli Esteri di Ucraina e Russia Dmytro Kuleba e Serghei Lavrov, senza specificare una data».

Ottimismo e pessimismo si alternano. Non si può essere equidistanti tra aggrediti e aggressore, però è essenziale creare le condizioni per un accordo che interrompa la guerra e scongiuri nuovi rischi per tutto il pianeta.

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Su Formiche Gabriele Carrer scrive: «Poche ore prima, l’ex primo ministro britannico David Cameron aveva invitato i paesi occidentali a boicottare il vertice dei Venti in caso di partecipazione di Vladimir Putin. “Sento già le obiezioni da Foggy Bottom e Whitehall”, cioè dalle diplomazie di Stati Uniti e Regno Unito, ha scritto sul Wall Street Journal. L’ex premier sottolinea che il G20 è sì un forum di dialogo, ma le riunioni “anche status e rispettabilità. Con quello che Putin ha fatto e sta facendo in Ucraina, questo dovrebbe essere impensabile”. E ancora, a chi ricorda che lui e Barack Obama avevano partecipato ai G20 del 2014 e 2015 con Putin, nonostante quello che stava facendo in Ucraina e in Siria, risponde: “Sì, l’abbiamo fatto, e le conversazioni con Putin sono state peggio che inutili. Ci ha palesemente mentito su tutto, dal destino dell’aereo di linea malese alla presenza delle truppe russe nel Donbass”. Infine, un boicottaggio non fermerà il G20: “Ecco perché dovremmo iniziare ora”, ribatte. “Un annuncio preventivo da parte di Stati Uniti e Regno Unito, preferibilmente di concerto con l’Unione Europea e i suoi Stati membri del G20 (Germania, Francia e Italia) avrebbe un grande impatto. È difficile credere che il Canada, il Giappone, la Corea del Sud o l’Australia partecipino se Putin è ancora al suo posto e continua la sua guerra. Ciò rappresenta circa due terzi del prodotto interno lordo del G20 e più della metà del Pil globale. Diamo istruzioni ai nostri diplomatici di mettersi al lavoro su Argentina, Brasile, India, Messico, Arabia Saudita e Sudafrica”».

Londra, quasi più di Washington, punta molte delle sue carte sulla disgregazione della Russia. È una scommessa che non ha tantissime possibilità di riuscire almeno nel medio periodo e potrebbe provocare ancora più disordine in una situazione internazionale già assai complicata.

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Su Formiche Luigi Romano scrive: «“La struttura sociale opaca e dominata dall’élite dei ‘pilastri’ della società bosniaca si adattava bene all’approccio preferito di Pechino nella regione, che comporta l’impegno diretto con le élite e chi ha incarichi di rilievo”, si legge nel rapporto. Dunque, “non sorprende che la metà degli anni 2010 abbia visto un’ampia crescita della presenza cinese nel settore energetico”. E non sorprende la presenza di Huawei nel 5G, quella di due Istituti Confucio nel paese e molti eventi legati alla Via della seta. “La Bosnia rimane il paese più problematico dei Balcani occidentali”, scrive l’analista. L’impasse geopolitica che riguarda l’adesione all’Unione Europea e alla Nato “continuerà a generare opportunità per gli attori non occidentali di espandere la loro influenza, con le élite politiche e commerciali delle diverse entità costituzionali della Bosnia più che pronte a impegnarsi e a trarne vantaggio”».

I Balcani sin dall’Ottocento, allora punto centrale della disgregazione dell’impero ottomano, sono stati epicentro di molte delle principali crisi continentali: dall’attentato di Gavrilo Princip che avvia la Prima Guerra mondiale alla tragica guerra civile nell’ex Jugoslavia negli anni Novanta del Novecento. La Cina si muove con determinazione in questa area. Ma sono anche certi movimenti tra Serbia e Kosovo che allarmano. Trovare un accordo con Mosca è anche la via per impedire nuovi scossoni all’ordine europeo da parte di quella forza destabilizzatrice che sono stati sempre i Balcani.

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Su Huffington Post Italia Alfredo De Girolamo ed Enrico Catassi scrivono: «Con il vertice internazionale nel Negev, il sogno di pace (o stabilità) di Shimon Peres viene parzialmente realizzato. Israele non è più riconosciuto come un’entità mal sopportata o estranea, come in passato. Ma, elevato allo status di partner regionale. La due giorni di riunioni diplomatiche sono la logica e diretta continuazione degli Accordi di Abramo, stipulati nel 2020 alla Casa Bianca. Che nascono come promanazione di quella che nella visione di Trump intendeva essere la soluzione all’infinito conflitto israelo-palestinese, il piano “Peace to Prosperity”. E che le parti in causa “non avrebbero potuto rifiutare».

In un’altra area critica per il mondo, il Medio Oriente, si raccolgono i frutti degli Accordi di Abramo. A uno Stato particolarmente realistico nell’analisi degli scenari internazionali come Israele, poi, non sfugge la funzione stabilizzatrice rispetto a diversi soggetti, a partire dall’Iran, dei russi in Siria, in Libia e in un Egitto che oggi potrebbe essere sconvolto da carestie provocate dalla guerra in Ucraina. Ascoltare Gerusalemme è sempre una scelta saggia da parte di chi vuole costruire un equilibrio internazionale che diminuisca rischi di guerra in tutto il pianeta.

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Sul Post si scrive degli Emirati Arabi che «hanno criticato la decisione del presidente americano Joe Biden di togliere dalla lista delle organizzazioni terroristiche i ribelli yemeniti houthi, che stanno combattendo una guerra in Yemen contro una coalizione che include anche alcuni paesi arabi del Golfo. Meno di un anno dopo, gli houthi hanno iniziato a colpire Abu Dhabi, la capitale emiratina. Sono stati sempre gli houthi ad attaccare venerdì scorso un deposito di carburante a Gedda, a pochi giorni dal Gran Premio di Formula 1 previsto nella stessa città. Gli Stati Uniti hanno offerto al governo emiratino di rafforzare le sue difese, ma gli Emirati hanno risposto di volere la reintroduzione degli houthi nella lista delle organizzazioni terroristiche».

Mentre sull’aggressione russa all’Ucraina Washington è riuscita a tenere insieme almeno il fronte occidentale, non mancano invece gli scenari dove un certo unilateralismo americano abbia provocato alcune tensioni. Nel Negev Antony Blinken ha potuto misurare come queste tensioni abbiano portato sauditi ed emiratini a diffidare di certe scelte americane sia sull’Iran sia sulla Russia.

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Su Formiche Giulio Terzi di Sant’Agata scrive: «Gli altalenanti negoziati per ripristinare l’accordo sul nucleare iraniano del 2015 sono di nuovo in stallo a causa dell’intransigenza di Teheran. Se l’ulteriore impasse può essere l’occasione per rivedere una strategia sbagliata in partenza, l’aggressione russa all’Ucraina – paese che ha rinunciato nel 1994 al proprio armamento nucleare in cambio di “garanzie di sicurezza” sottoscritte anche da Mosca con il Memorandum di Budapest – modifica sostanzialmente alcuni presupposti. Infatti, i falchi del regime di cui Ebrahim Raisi è espressione sono, secondo alcuni osservatori, ancor più decisi a dotare il Paese dell’arma nucleare e farebbero leva, nei dibattiti interni al regime, sull’inaffidabilità delle garanzie internazionali ottenute in passato da paesi che, come l’Ucraina, disponevano di tali armamenti».

Mentre le mosse dell’amministrazione Trump contro un Iran impegnato a sostenere guerre in tutta l’area della Mezzaluna fertile mediorientale (dal Libano alla Siria, dall’Iraq allo Yemen) hanno portato agli Accordi di Abramo, il muoversi senza una vera ispirazione strategica da parte dell’amministrazione Biden (peraltro ora impegnata anche a contrastare l’aggressione russa in Ucraina) potrebbe provocare problemi inediti. Sarebbe dunque utile che la Casa Bianca recuperasse rapidamente una visione più articolata della situazione, magari concentrandosi di meno solo sulle pur rilevanti elezioni di midterm.

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Su Affaritaliani Lorenzo Zacchetti scrive di Recep Tayyip Erdoğan: «Sia sui migranti che sul gas, per citare solo gli esempi più recenti, il suo comportamento nei confronti dell’Unione è stato chiaramente ricattatorio. Il suo curriculum, peraltro, è lungo e costellato di episodi che hanno davvero scandalizzato la comunità internazionale: da Osman Kavala, attivista arrestato con accuse ben poco solide, al bavaglio imposto alla stampa locale, dalla repressione dei diritti Lgbtq+ a scelte di politica ambientale nettamente bocciate da tutti gli esperti del settore, dall’attacco ai diritti delle donne sferrato con l’uscita dalla convenzione di Istanbul a una lunga serie di accuse che risalgono a quando non era ancora a capo dello Stato».

Zucchetti nota come Erdoğan sia descritto ora come l’ennesimo autocrate, ora come il costruttore di pace che forse risolverà la crisi ucraina. Questo era già successo quando Barack Obama aveva puntato su Ankara per “sistemare” il Medio Oriente, per trovarsi poi con un caos generalizzato che aveva visto perdere di peso la presenza americana in Libia ed Egitto. Così succede quando si persegue una politica estera ispirata dalla propaganda invece dall’analisi realistica delle situazioni concrete.

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Su Formiche Emanuele Rossi scrive: «Il ministero della Difesa russo ha dichiarato che le forze armate azere sono entrate in una zona sorvegliata dalle forze di pace russe nella regione del Nagorno-Karabakh, in violazione di un accordo di controllo dell’area altamente instabile, ma l’Azerbaigian ha contestato queste affermazioni. Mosca sostiene di aver invitato Baku a ritirare le sue truppe, mentre “applicava sforzi” di pace sul campo».

Affidarsi ai turchi per trovare una mediazione tra Mosca e Kiev può essere la scelta più saggia. Va perseguita sapendo che vi potrebbero essere conseguenze nel confine ovest dell’Asia centrale e avendo la consapevolezza morale che un nuovo massacro di armeni non sarebbe meno grave di quello che i russi stanno facendo in Ucraina.

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Su Huffington Post Italia Lorenzo Santucci scrive: «Il cinese Wang Yi e il russo Sergej Lavrov avranno un faccia a faccia, ufficialmente non per discutere di Ucraina. Anche se sarà il loro primo incontro dall’invasione russa e sorvolare sulla guerra sarà difficile, il motivo ufficiale dell’incontro organizzato da Pechino è l’irrisolta questione afghana. A sedere allo stesso tavolo ci saranno i rappresentanti del cosiddetto meccanismo di consultazione “Cina-Usa-Russia+”, che prevede la presenza dei rappresentanti anche di Iran, Pakistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan, oltre al ministro degli Esteri ad interim di Kabul, Amir Khan Muttaqi».

Il centro dell’Asia centrale è un’area fondamentale per impedire nuove crisi globali. E a Washington toccherà discuterne anche con Mosca.

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Su Startmag Maria Scopece scrive dell’analisi di Dario Fabbri: «L’intelligence statunitense all’inizio della guerra immaginava che l’India si sarebbe schierata con il fronte occidentale, invece il governo di Narendra Modi ha optato per una linea di neutralità. “Delhi ha scelto di schierarsi dalla parte dalla Russia optando per una posticcia neutralità che ne segnala l’indipendenza strategica e ha scongiurato l’isolamento di Mosca”, ha sottolineato Fabbri nel suo podcast Nove minuti sulla notizia geopolitica della settimana. “Fisiologicamente antioccidentale, il subcontinente si schiera in posizione anti Nato sebbene abbia eletto la Cina come la sua nemica. Però l’India necessita di mantenere i legami industriali (anche militari) con la Russia tanto importanti da negare alle Nazioni Unite la condanna della Russia e da elaborare uno schema rupie-rublo per aggirare le sanzioni. L’India vuole conservare una propria via indipendente per decidere ogni volta come agire alle prese con i vari dossier internazionali».

Negli orientamenti di Nuova Delhi conta molto il modo unilaterale e improvvisato con cui Washington ha abbandonato l’Afghanistan, area fondamentale, grazie al suo collegamento con il Pakistan, per la sicurezza dell’India. Ecco un altro esempio di unilateralismo che ha le sue conseguenze.

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Su Dagospia si riprende Antonio Fatigusa dall’Ansa che scrive: «“Quando Cina e India parleranno con la stessa voce, il mondo intero ascolterà”, ha aggiunto Wang, per il quale “le due parti dovrebbero rafforzare la comunicazione e il coordinamento, sostenersi a vicenda, dare segnali più positivi per sostenere il multilateralismo e iniettare più energia positiva per migliorare la governance globale”».

Non manca retorica e propaganda in queste parole del ministro degli Esteri cinese. Però c’è anche un elemento di verità che ci fa capire come oggi le divisioni politiche internazionali non passino solo tra autocrazie e democrazie. India, Sud Africa, Brasile (non solo quello di Jair Bolsonaro ma anche quello di Luiz Inácio Lula) e perfino in qualche misura Israele non sono schierate per il potere delle autocrazie bensì sono preoccupate di un certo, crescente, unilateralismo americano. Dalla sua Washington, sebbene sia forte della sua civiltà, dei suoi armamenti, della sua tecnologia, della sua finanza, dovrebbe studiarsi un po’ Tucidide e che cosa scriveva della potenza marittima di Atene sprezzante quella terrestre di Sparta. O anche riflettere sull’impero britannico di fine Ottocento, potenza globale indiscussa che entrando a occhi un po’ chiusi nel Novecento si trovò a finire in seconda fila negli scenari globali.

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