«Il fatto interessante è che da quando esiste questa operazione è diminuito molto il numero degli incidenti in mare». Chiedendo al capitano di vascello Vianello se gli sbarchi di immigrati salpati dalle coste libiche siano aumentati o diminuiti con l’operazione Mare Nostrum non si può che ricevere la risposta d’onore di un ufficiale. Il capitano parla di 56 mila persone tratte in salvo da quando è in corso l’operazione, circa 43 mila dalle navi della marina, le altre da mezzi che a vario titolo hanno cooperato, come mercantili e altre forze armate. Non è qui, non è su una delle navi che ogni giorno pattugliano le nostre coste e cercano di avvicinare i barconi di disperati scongiurandone il capovolgimento, che si deve venire a cercare l’eco della polemica che travolge Mare Nostrum, l’operazione iniziata il 13 ottobre scorso, dopo che circa trecento persone morirono nell’incendio e nel naufragio del barcone con cui cercavano di raggiungere l’Italia. Tornano vive le immagini raccapriccianti di quei giorni, le storie di madri incinte restituite dal mare giorni dopo la morte, bambini falciati dal fuoco o inghiottiti dall’acqua. Fino alla schiera ordinata e tragica dei corpi disposti sul molo e delle bare per un simbolico funerale. Un corredo iconografico terribile e toccante che condiziona enormemente il dibattito sull’immigrazione nel nostro paese e più ancora quello sulla gestione degli sbarchi.
Sono passati nove mesi da quando è stata lanciata un’operazione che si prefiggeva il duplice scopo, come ricorda a Tempi ancora il capitano Vianello, di far fronte a un’emergenza umanitaria sorvegliando le acque dello stretto di Sicilia ma anche di offrire un contributo significativo al traffico di migranti. In pratica: salvare i disperati e catturare gli scafisti stroncandone gli affari. E nonostante il governo faccia sapere che dall’inizio dell’anno sono stati assicurati alla giustizia almeno un centinaio di delinquenti, ad oggi la seconda parte del messaggio sembra non funzionare a dovere, quanto meno in termini di deterrenza. Basti pensare che i prezzi per i biglietti dei viaggi della speranza sono addirittura diminuiti, arrivando anche a meno di mille euro. «Certo che i prezzi dei biglietti sono diminuiti», dice a Tempi Alfredo Mantici, ex direttore dell’ufficio analisi del Sisde oggi direttore del portale di geopolitica Lookout News. «I trafficanti vedono i nostri telegiornali e sentono che Mare Nostrum non è un’operazione concepita per frenare le ondate migratorie clandestine e a metà del tragitto ci sono le navi italiane». Solo venerdì scorso la Marina ha intercettato un gommone affondato a circa 40 miglia dalle coste della Libia (il corrispondente di circa 60 km). Dieci corpi recuperati, 39 persone salvate e decine di dispersi. È il copione che si ripete ormai quotidianamente in un momento in cui la bella stagione favorisce la navigazione e in cui le guerre africane e mediorientali portano masse di disperati a premere sulle coste di una Libia ormai fuori controllo.
«Se vogliamo incidere sul fenomeno – riprende pragmaticamente Mantici – dobbiamo colpire chi ha in mano il rubinetto dei flussi, ovvero i trafficanti di uomini. I quali impongono un prezzo da pagare per il biglietto che non è solo il corrispettivo di quanto vogliono guadagnare, ma anche di quello che rischiano. Se rischiassero 30 anni di carcere i prezzi aumenterebbero. Poi dobbiamo accettare che quando queste persone arrivano sulle nostre coste sono un nostro problema».
Pochi giorni fa il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio ha ribadito l’importanza di Mare Nostrum, un’operazione che, secondo i numeri forniti dal ministro della Difesa Roberta Pinotti, costa all’Italia poco più di 9 milioni di euro al mese. L’operazione non si chiude, come chiedevano la Lega e Forza Italia, ma occorre ragionare per superarla e migliorarla «nel senso di renderla pienamente europea e non più una missione emergenziale».
Pochi giorni dopo il ministro dell’Interno Angelino Alfano tornava a minacciare la sospensione dell’operazione. Che è un po’ come minacciare uno sciopero delle ambulanze: un’opzione inimmaginabile a meno di assumersi la responsabilità di centinaia di morti innocenti. La minaccia dovrebbe servire a scuotere un’Europa indiscutibilmente assente. Il governo italiano chiede che una sede dell’agenzia Frontex sia trasferita in Italia e che si occupi della missione (adeguatamente finanziata, perché ad oggi ha un budget di 80 milioni mentre Mare Nostrum costa trecentomila euro al giorno…). Insomma: il vertice europeo sull’immigrazione del 25-26 giugno si annuncia ricco di argomenti.
Il semestre italiano di presidenza, in questo senso, condensa molte (fin troppo generose) speranze. L’Italia punta a una revisione della cosiddetta Convenzione di Dublino, quel regolamento europeo che stabilisce quale sia lo Stato competente a valutare la domanda di asilo di un migrante secondo la Convenzione di Ginevra, solitamente quello in cui il migrante ha raggiunto per la prima volta l’Unione Europea. «Difficile pensare che in un semestre di presidenza, tanto più come quello che si appresta a presiedere l’Italia con la gran parte delle direzioni ancora da assegnare dopo le elezioni del 26 maggio, si possano addirittura modificare delle Convenzioni. Però lo spazio per degli atti intermedi c’è e deve esserci», osserva Natale Forlani, direttore generale dell’Immigrazione del ministero del Lavoro. «Mare Nostrum ha dei limiti grandi – riprende Forlani –, che vanno al di là delle responsabilità italiane: il 90 per cento dei flussi migratori passa da una Libia senza governo e senza interlocutori istituzionali. C’è poi una lunga storia di responsabilità europea, che non si è mai preoccupata di controllare flussi migratori che hanno al loro interno elementi di pericolosità molto elevata, in cui non mancano le infiltrazioni criminali o terroristiche. Arrivano i disperati dell’Africa subsahariana e sull’arrivo di questi disperati in Libia non solo non si controlla, ma si lucra. Ci vuole una autorevolezza persuasiva di intervento che non può che essere europea». «Se non governiamo il fenomeno – riprende Mantici – siamo destinati a subirlo. Occorre ostacolare le partenze con accordi con i governi dei paesi di partenza. Non è impossibile fare un accordo con la Tunisia, coi banditi delle milizie libiche usando i nostri servizi segreti».
La storia di Klodiana
Klodiana Cuka è albanese. È arrivata in Italia nel 1992 con la legge Martelli. Per una decina di anni, mentre passava dal lavoro di sarta, cameriera fino a quello di studentessa universitaria e poi dottoranda, ha avuto scritto “collaboratrice domestica” sulla carta di identità. La sua vocazione l’ha trovata come fondatrice e direttrice di Integra, una Onlus titolare di servizi per favorire l’integrazione degli immigrati. Dopo l’emergenza seguita alla cosiddetta primavera araba, Integra vince la gestione per il triennio 2014-2016 di alcuni progetti per l’assistenza ai richiedenti l’asilo secondo i fondi Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Nelle piccole strutture di accoglienza gestite da Integra nei dintorni di Lecce (appartamenti con al massimo otto persone) stanno immigrati che per sei mesi vengono assistiti nella procedura di richiesta di asilo dopo la permanenza nei grandi centri di accoglienza come Mineo e Bari. In loro Klodiana rivede spezzoni della sua storia, quando erano lei e i suoi connazionali a scappare per inventarsi un futuro. Qui, in questo periodo cruciale che segue la fase di emergenza, qualcuno impara a scrivere un curriculum, a cercare un lavoro; gli altri, la maggior parte, si preparano ad andarsene. L’esperienza di Klodiana e dei suoi colleghi conferma infatti quello che mostrano i dati: la gran parte dei migranti che arriva in Italia (l’80 per cento di essi ha le caratteristiche per ottenere l’asilo) punta a stabilirsi nel Nord Europa. «Queste persone devono essere considerate profughi dell’Europa», osserva Klodiana auspicando anche lei la revisione della convenzione di Dublino.
Un anno fa la visita del Papa
L’8 luglio prossimo sarà passato un anno esatto dalla visita di papa Francesco a Lampedusa. Un evento eccezionale, con la Messa celebrata usando una barca come altare e un’omelia sferzante, nei confronti dell’indifferenza («quanti di noi hanno pianto vedendo quelle immagini di naufragi?», chiedeva il pontefice) e dei mercanti di uomini che sfruttano la sofferenza e le speranze dei propri fratelli. «La rete internazionale dei trafficanti di uomini – riprende Mantici – è pericolosa quanto quella dei trafficanti di droga e come tale va colpita. Dobbiamo liberarci dall’immagine “romantica” delle famiglie con bambini che stanno sulle spiagge libiche ad aspettare le barche verso una vita migliore. La realtà è che ci sono persone e intere famiglie, deportate, e buttate su dei barconi da cui non si sa se usciranno vivi».
Ancora oggi, a un anno dalla visita del Papa a Lampedusa, e nel corso dell’ennesima estate di sbarchi la linea la detta sempre l’emergenza, così ha spazio il gioco delle parti in cui si nasconde colpevolmente la politica, con da un lato quelli che paventano una “invasione” da cui difendersi e dall’altra i profeti di un buonismo che è tutto fuorché una politica seria di accoglienza. «Il dibattito sull’immigrazione in Italia è un po’ datato – conclude Natale Forlani. Si tende a identificare l’immigrazione con le barche, ma l’incidenza dei flussi via mare sul complesso dell’immigrazione che interessa il nostro paese è minima. L’Italia è un paese che ha i numeri di una comunità matura di accoglienza, con quasi 5 milioni di residenti di origine straniera, di cui la metà sono europei, ossia il prodotto della libera circolazione. I bisogni di queste persone sono diversi. Sono persone che hanno i requisiti di welfare che abbiamo noi, a cui garantiamo cure mediche, sostegno al reddito. Ecco, gli altri paesi europei si stanno ponendo il problema della sostenibilità dei neocomunitari. Noi parliamo ancora di immigrazione come se fossimo fermi a dieci anni fa, quando c’era il lavoro e una domanda di professionalità che erano proprio gli immigrati a soddisfare».