L’unica soluzione alla crisi è dimezzare le tasse e far lavorare le cicale

Di Giovanna Jacob
16 Dicembre 2011
Il trasferimento forzoso di ricchezza dalle tasche di coloro che la ricchezza la producono alle tasche dei poveri, non serve a rendere i poveri meno poveri ma a rendere tutti più poveri. Serve solo a soddisfare una bestia famelica che si annida nel cuore di ogni uomo: l’invidia. Lunga e articolata intemerata contro lo Stato baby sitter

È dura essere liberali in Italia. Infatti, non solo i liberali qui sono pochi, ma i pochi che contano fra i pochi liberali italiani si dimostrano poco liberali. Fino a due settimane fa, pensavo: “Meno male che c’è Oscar Giannino”. Ma poi Giannino su Tempi del 14 dicembre 2011 a pagina 15 ha scritto delle parole che per me sono come una pugnalata: «L’abolizione dell’Ici sulla prima casa si era rivelata un lusso che non potevamo permetterci, oltre ad aprire un vulnus per l’autonomia finanziaria dei Comuni». Che cosa?!? Uno che si considera liberale mi viene a dire che abolire l’Ici è stato un lusso? No, caro Giannino, il lusso non è abolire l’Ici, il vero lusso sono i servizi pubblici improduttivi che ora i comuni e ora lo stato centrale pagano con i soldi mafiosamente estorti alla povera gente che con anni di sacrifici e di rinunce è riuscita a comprarsi un tetto sotto cui dormire.

Il vero lusso che non possiamo più permetterci è la spesa pubblica improduttiva. Domanda: perché oggi tutti parlano, e giustamente, di alzare l’età della pensione e di abolire le pensioni di anzianità ma nessuno, neppure i liberali, neppure Giannino, parlano di tagliare drasticamente i posti di lavoro pubblici in esubero? Per quanto tempo dovremo ancora pagare la gente per spalare la neve in agosto e fare i forestali in Sicilia? Infatti, lo scandalo delle pensioni di anzianità è niente rispetto allo scandalo di ospedali, uffici postali e altri servizi pubblici tanto costosi quanto inefficienti, concepiti dagli allievi di Keynes come distributori automatici di stipendi. E una prima pugnalata Giannino me l’aveva data quando, durante la trasmissione “L’ultima parola” di venerdì 2 dicembre, non aveva prontamente sbugiardato Fausto Bertinotti che raccontava la favola del New Deal di Roosevelt. Se ne stava buono e zitto mentre il vecchio dinosauro comunista diceva che «molti economisti chiedono ad Obama di mettere fuori legge il pareggio di bilancio perché fu proprio grazie alla spesa pubblica che l’America uscì dalla grande Depressione». È da tempo che i liberali conservatori americani portano avanti una battaglia contro questo falso mito, costruito dalle sinistre. Dal momento che Marx ormai è impresentabile, le sinistre adesso usano il mito di Keynes come presentabile e politicamente corretto cavallo di Troia di una visione statalista e socialista, nemica della proprietà privata e del capitalismo.

Mi sono fatta un rapido ripasso della storia della filosofia e sono giunta alla conclusione che i veri colpevoli morali della attuale crisi sono tre: Adam Smith, John Stuart Mill e John Maynard Keynes. Ma partiamo dagli albori della civiltà occidentale ossia partiamo dal principio. In principio era il cristianesimo, che connetteva l’economia alla morale. Il capitalismo è figlio del cattolicesimo, non del protestantesimo. Secondo l’etica capitalista, che dunque è un’etica cattolica, non si può fare una buona impresa economica se non si rispettano i valori della legge naturale e se non si esercitano delle virtù, naturalmente cristiane, come la prudenza, la parsimonia, la pazienza e anche la carità. Contano anche, naturalmente, talenti naturali quali la creatività e l’intuizione. Ma anche se si possiedono immensi talenti, non si può fare una buona impresa se si trascurano o addirittura si calpestano deliberatamente, egoisticamente, le esigenze del prossimo. Bisogna favorire il benessere del prossimo in primo luogo perché la carità lo ordina, in secondo luogo perché in economia, al contrario di quel che si pensa, non è vera la massima “mors tua, vita mea”.
Se gli imprenditori non si preoccupano di diffondere ricchezza e benessere con una condotta virtuosa, la società si impoverisce; se la società si impoverisce, anche loro si impoveriscono, perché  nessuno compra più i loro prodotti e i loro servizi. In una economia liberale fare del bene al prossimo significa fare del bene anche a se stessi sul lungo periodo. Un imprenditore fa del bene alla società facendo bene il suo lavoro, ossia in primo luogo creando ricchezza e posti di lavoro ben retribuiti. Fra i fattori che determinano la ricchezza di una nazione, per riprendere un’espressione di Adam Smith, infinitamente più delle materie prime, conta l’impegno a fare il bene da parte di ogni soggetto economico. Tuttavia, non tutti gli attori economici sono disposti a comportarsi bene. Nell’umanità, a causa del peccato originale, il male è più frequente del bene. Se non esistessero leggi, tribunali e prigioni, probabilmente il numero dei furti, degli omicidi e d’ogni genere di violenze sarebbe esponenzialmente più alto di quello che è. Come nella società, anche nel mercato c’è bisogno di un sistema di leggi e sanzioni. Se infatti niente e nessuno lo impedisce loro,  i “lupi” non hanno nessuna ragione per non mangiarsi gli “agnelli”.

Dunque dal punto di vista cristiano i soggetti economici, se pensano solo a fare i loro interessi egoistici, non fanno l’interesse generale della società. Se i soggetti economici si comportano male, l’economia va male e la società va male; se invece si comportano bene, la società va bene. Invece, l’economista illuminista Adam Smith, che pure era un convinto assertore del giusnaturalismo e un critico spietato del positivismo giuridico di Hobbes, sosteneva più o meno il contrario: se i soggetti economici si comportano male l’economia va bene. Precisamente, i soggetti economici dovrebbero pensare solo a fare i loro interessi egoistici, ci penserebbe la fantomatica “mano invisibile” del mercato a fare gli interessi generali di tutta la società, garantendo al maggior numero dei suoi membri il benessere. E che la “mano invisibile”  sia, come sembra pensare Smith, la provvidenza divina che agisce attraverso il mercato oppure sia, come penseranno i suoi epigoni, l’insieme dei meccanismi meramente materiali del mercato, poco cambia. Perché la mano funzioni, bisogna togliere ogni regolala mercato e lasciar fare (“Laissez faire”) ai soggetti economici quello che vogliono.
Infatti Smith, da illuminista, vede nel mercato una sorta di macchina perfetta che si guiderebbe da sola in virtù di sue proprie forze fisiche, che poi gli economisti modernisti crederanno di poter studiare scientificamente. Dunque, non sarebbero gli uomini a muovere la macchina dell’economia con le loro azioni e le loro scelte morali, sarebbe la macchina dell’economia a muovere gli uomini, portandoli sulla strada della prosperità. Insomma, il mercato sarebbe una sorta di utopia. Come la società utopica di Marx sarebbe un sistema talmente perfetto in cui tutti diventerebbero automaticamente buoni, similmente il mercato secondo Smith sarebbe un sistema talmente  perfetto in cui nessuno avrebbe bisogno di essere buono.

In realtà, ci fosse bisogno di dirlo, il mercato non è una macchina perfetta. Non basta pensare solo al proprio bene per fare del bene anche agli altri. Nel XIX secolo in Europa nessuna “mano invisibile” impediva a gran parte dei capitalisti di abbassare il salario dei lavoratori al di sotto della soglia di povertà, suggerendo così a Marx l’idea sbagliata del “conflitto fra capitale e lavoro”. Nessuna “mano invisibile” impediva ai “lupi” di mangiarsi gli “agnelli” unendosi in trust, stabilendo i cartelli dei prezzi e raggiungendo posizioni di monopolio. Quindi, se da una parte, grazie allo sviluppo industriale, aumentava la produzione delle ricchezze, dall’altra  la maggior parte delle ricchezze prodotte finivano in poche mani, lasciando larghi strati della popolazione fuori dall’area del benessere, dove il canto delle sirene socialiste si faceva più seducente. E certamente a quei “lupi” poco interessava che la loro condotta, sul lungo periodo, sarebbe stata svantaggiosa anche per loro. Ai “lupi”, infatti, interessa solo il profitto immediato. 

Accortosi per tempo che non c’era nessuna “mano invisibile” ad impedire a poche avide mani di accaparrarsi la maggior parte delle ricchezze prodotte, John Stuart Mill pensò che fosse il caso di affidare allo stato il compito di strappare le ricchezze da quelle mani e “ridistribuirle”. In sostanza, lo stato per Mill doveva diventare una sorta di sostituto visibile della mano invisibile. Ma a parte questo, Mill la pensa esattamente come Smith: né lo stato né nessun altro dovrebbe azzardarsi a porre una sola regola al mercato. Dal loro punto di vista regolare il mercato significherebbe devitalizzarlo. Quindi, fra la visione di Smith e quella di Mill non c’è una differenza sostanziale. A livello teorico, poco cambia se lo stato esiste e la “mano invisibile” non esiste. Quello che importa è che né Smith né Mill ritengono che a “ridistribuire le ricchezze” ci debbano pensare i soggetti economici stessi facendo bene il loro lavoro e facendo anche la carità ai poveri. Sia Smith che Mill ritengono che i soggetti economici non debbano rispettare nessuna regola, debbano pensare unicamente a fare i loro interessi egoistici e a soddisfare i loro appetiti voraci, senza curarsi degli interessi del prossimo. Sia l’uno che l’altro ritengono che dall’egoismo, dalla voracità e dagli altri vizi capitali degli uomini possa derivare del bene per la società intera. “Vizi privati, pubbliche virtù” è una tipica massima settecentesca. In sintesi, sia Smith che Mill separano l’economia dalla morale e dalla legge naturale, ponendo così le basi dell’economicismo marxista e più in generale dell’economicismo modernista.

Se non esaltano apertamente i vizi, specialmente l’avidità, comunque gli economisti modernisti, in Italia noti come bocconiani, tendono a negare l’esistenza di una qualsiasi relazione fra l’andamento dell’economia e la condotta morale dei soggetti economici. Infatti, sono persuasi che l’economia sia una sorta di organismo fisico quasi del tutto indipendente dalle azioni e dalle scelte dei soggetti economici. Come gli organismi biologici sono regolati dalle complesse leggi della biologia, così l’organismo dell’economia sarebbe regolato, secondo questi sciagurati economisti, da forze meramente materiali che essi si illudono di poter misurare, ricavandone perfino leggi formulate in termini matematici. E così parlare di economia significherà parlare unicamente di cose come prezzi delle materie prime, costo del denaro, inflazione, spread eccetera con tanto di grafici, tabelle, percentuali e tutto fuorché quello che veramente conta, cioè lo spirito umano.

Dalle idee di Mill discendono l’economicismo modernista da una parte e il modello socialdemocratico dall’altra. Se l’economicismo modernista separa l’economia dalla morale, lo stato socialdemocratico libera concretamente l’uomo modernista dal peso della morale e dal peso delle virtù in cambio di soldi. Tramite varie forme di assistenzialismo, lo stato gli toglie il pensiero di fare la carità ai poveri. Tramite la previdenza sociale e quelli che oggi si chiamano “ammortizzatori sociali”, lo stato gli toglie il pensiero di avere cura del proprio denaro in previsione dei giorni delle vacche magre e della vecchiaia. Seppure le tasse non gli piacciono, l’uomo modernista preferirà pagare tasse salate piuttosto che essere previdente e caritatevole. Lo scambio gli sembra vantaggioso: vita comoda in cambio di tasse. Egli fa un po’ come quelle coppie che, pure di togliersi dai piedi il più a lungo possibile i bambini al fine di godersi la vita, investono interi capitali in baby-sitter. Troppo tardi il cittadino si accorge che lo stato baby-sitter, invece di rendergli la vita comoda, lo deruba. Per qualche lustro la macchina della previdenza sembra funzionare, e a tempo debito ad ogni cittadino tornano indietro i soldi versati. Ma alla lunga la macchina si inceppa, e i cittadini si accorgono che i contributi di una vita di lavoro non torneranno mai loro indietro perché lo stato li ha gestiti male, disperdendoli in mille rivoli fatti di sprechi, abusi, privilegi e ladronerie. Lo stato che ridistribuisce le ricchezze è infatti simile ad un tubo bucato. Se immetti dell’acqua in tubo bucato, la metà andrà sprecata, uscendo dal buco. Analogamente, se immetti una quantità sempre maggiore di ricchezze nel tubo dello stato-distributore, più della metà andrà sprecata ossia derubata. E badate che è impossibile tappare il “buco” dello stato-distributore. Infatti, quel buco è generato e rigenerato continuamente dal peccato originale.

Lo stato socialdemocratico non si limita a ridistribuire le ricchezze. Infatti, dal ridistribuire le ricchezze al dirigere direttamente la produzione delle ricchezze, ossia dalla socialdemocrazia al socialismo reale, il passo non è lungo. In mezzo c’è il modello keynesiano, che non è se non un socialismo moderato. Nel 1929 il crollo della borsa di Wall Street provocò una crisi economica senza precedenti che dagli Usa si estese rapidamente all’Europa. John Maynard Keynes, brillante discepolo di Mill, riuscì a convincere il presidente degli Stati Uniti che l’unica soluzione alla crisi era l’aumento della spesa pubblica, con conseguente “deficit spending”. Un aumento della  spesa pubblica, secondo Keynes, avrebbe fatto sicuramente ripartire i consumi, stimolando così la crescita economica. Lo stato avrebbe dovuto creare nel settore pubblico il maggior numero possibile di posti di lavoro, non importava quali, senza preoccuparsi di tenere i conti pubblici in ordine. Roosevelt scelse di avviare una serie di grandi opere pubbliche più o meno utili al paese, ma al limite avrebbe potuto anche pagare la gente per scavare delle buche e per ricoprirle. Infatti l’importante secondo Keynes non era dare al paese nuove infrastrutture ma fare in modo che la gente avesse abbastanza soldi da spendere in beni e servizi. L’inevitabile aumento del deficit conseguente all’aumento della spesa pubblica avrebbe potuto essere controbilanciato in un futuro imprecisato dall’espansione dell’economia e dal conseguente aumento del gettito fiscale. Geniale, no?

Insomma, Keynes raccontava che il debito pubblico avrebbe avuto il potere magico di creare sviluppo e Roosevelt gli ha creduto. E oggi tutti, perfino a destra, credono che le ricette di Keynes abbiano davvero funzionato, che abbiano davvero portato l’America fuori dalla crisi. Strano davvero che nessuno si sia accorto del fatto che la Grande Depressione sia iniziata nel 1929 e sia finita solo nel 1945, a guerra finita. La verità, infatti, è che furono le spese militari della Seconda guerra mondiale a fare ripartire l’industria statunitense, innescando lo straordinario boom post-bellico. Prima di allora, la spesa pubblica non era servita a nulla, tranne che ad allargare il buco del deficit, alla faccia del “deficit spending”. Lo ammise lo stesso ministro del tesoro del governo Roosevelt nel 1939, poco prima della discesa in campo degli Usa contro Hitler: «We have tried spending money. We are spending more than we have ever spent before and it does not work. And I have just one interest, and if I am wrong…somebody else can have my job. I want to see this country prosperous. I want to see people get a job. I want to see people get enough to eat. We have never made good on our promises… I say after eight years of this administration we have just as much unemployment as when we started… And an enormous debt to boot!” (Secretary of the Treasury, Henry Morgenthau).

A differenza di quanto tutti continuano ostinatamente a pensare, la spesa pubblica non crea sviluppo. Certo, si potrebbe anche pensare che, seppure non crea sviluppo, almeno possa offrire dei servizi utili ai cittadini. Ma non è così. I cittadini avveduti sperimentano tutti i giorni a loro spese che i servizi pubblici sono inefficienti e inaffidabili. Se sapessero che, oltre ad essere inefficienti e inaffidabili, costano dieci o cento volte di più degli analoghi servizi privati per varie cause concomitanti (assenteismo cronico, creste sulle spese, sprechi e furti d’ogni sorta), probabilmente marcerebbero uniti verso le sedi dei servizi pubblici, le assalterebbero e inviterebbero cortesemente i dipendenti pubblici a cercarsi un vero lavoro. Ma non lo sanno, si fa di tutto perché non lo sappiano. Si fa di tutto perché i cittadini avveduti non riflettano sul fatto che sono loro stessi a pagare lo stipendio ai fannulloni da cui vengono maltrattati agli sportelli degli uffici pubblici, e che quindi in teoria avrebbero anche il diritto di licenziarli. Quale persona sana di mente accetterebbe di tenersi in casa una domestica che non ha voglia di fare nulla, trafuga l’argenteria e come se non bastasse esige uno stipendio dieci volte superiore a quello delle sue colleghe? Se una persona sana di mente ha il diritto di cacciare una tale domestica, perché i cittadini sani di mente non dovrebbero avere il diritto di licenziare i fannulloni cui pagano lo stipendio tramite il fisco? Certo, non tutti i dipendenti pubblici sono fannulloni e non tutti  i dirigenti pubblici sono spreconi e ladri. Quindi, si potrebbe pensare che, per rendere efficienti i servizi pubblici, sia sufficiente identificare e cacciare i fannulloni, gli spreconi e i ladri. Ma non è così. Se è vero infatti che non tutti i dipendenti pubblici sono fannulloni, tuttavia una buona parte lo sono; se è vero che non tutti  i dirigenti pubblici sono spreconi e ladri, tuttavia la una buona parte lo sono. Anche se fosse possibile, e non lo è, cacciare via questa quota fissa di parassiti del denaro pubblico, altri parassiti prenderebbero immediatamente il loro posto. Infatti – e qui viene il bello – non sono i cattivi dipendenti che rovinano i servizi pubblici, ma sono i servizi pubblici che rovinano i dipendenti, rendendoli cattivi. Il  posto di lavoro pubblico è una macchina per corrompere l’essere umano.

Chi ha coscienza del peccato originale, potrà ammettere che, se non fosse obbligato a comportarsi bene da leggi, controlli e sanzioni, difficilmente l’essere umano si comporterebbe sempre bene di sua spontanea volontà. Se non ci fossero telecamere e vigilantes nei supermercati e nei grandi magazzini, stiamo sicuri che l’occasione farebbe tutti taccheggiatori, anche le più insospettabili persone perbene ossia noi stessi. Ebbene, il posto di lavoro pubblico è come un supermercato senza telecamere e senza vigilantes. Dal momento che il suo stipendio è fisso e non può essere licenziato se non per casi limite, l’impiegato pubblico difficilmente resisterà a lungo alla tentazione di oziare ed assentarsi il più possibile. Dal momento che nessuno lo controlla, un dirigente pubblico difficilmente resisterà a lungo alla tentazione di fare qualche cresta sulla spesa, nascondendo in qualche paradiso fiscale il denaro pubblico rubacchiato cresta dopo cresta. E se lo stato mettesse un controllare a controllare il dirigente pubblico, quasi sicuramente il controllore chiuderebbe un occhio e ruberebbe anche lui, dal momento che anche lui ha l’occasione che lo fa ladro. Per tacere del numero spropositato di occasioni che ha ogni burocrate di intascare bustarelle e mazzette. Chi glielo fa fare di non intascarne neanche una? E per concludere, occupare a vita un posto di lavoro pubblico e intascare a vita un sussidio di disoccupazione sono esattamente la stessa cosa. Infatti, lo stato socialdemocratico crea servizi pubblici non tanto per rispondere alle necessità della società (cui possono rispondere di più e meglio i privati) ma per creare occupazione. Anzi, occupazione è una parola grossa. Allo stato keynesiano non interessa che i suoi dipendenti facciano un lavoro utile a qualche cosa, ma che ricevano uno stipendio. Se potesse, lo stato li pagherebbe veramente per scavare le buche e per ricoprirle. Comunque, certi comuni e certe regioni pagano la gente per spalare la neve d’agosto e altre amenità che in confronto scavare le buche sarebbe più dignitoso.

E per quanto riguarda i sussidi di disoccupazione veri e propri, che per fortuna in Italia non sono diffusi come in altri paesi, non c’è maniera più semplice di trasformare un giovane in un teppista che pagargli un sussidio. Se un essere umano deve scegliere fra un lavoro vero e un sussidio, ossia fra il faticare e il non far nulla, per le ragioni di cui sopra quasi sicuramente sceglierà il sussidio. Si potrà obiettare che il percettore di sussidio un lavoro lo vorrebbe eccome ma non lo trova. Non è esatto. Di posti di lavoro disponibili ce ne sarebbero pure, ma sono troppo modesti per i gusti del tipico professionista della disoccupazione. Piuttosto che alzarsi presto alla mattina per fare un lavoro con cui non guadagnerebbe abbastanza per comprarsi una villa con piscina, il tipico disoccupato recidivo che vive nei sobborghi di Londra o di Parigi o di Stoccolma preferisce continuare ad oziare alle spalle dei contribuenti, dando a bere agli assistenti sociali che lui il lavoro proprio non riesce a trovarlo. Quando è stanco di oziare, si dedica ai suoi sport preferiti: il saccheggio e la devastazione. In paesi di consolidata tradizione socialdemocratica come l’Inghilterra, la Francia e la Svezia i soggetti produttivi pagano i sussidi di disoccupazione ad eserciti di teppisti che preferiscono ammazzare il tempo mettendo a ferro e fuoco i sobborghi piuttosto che cercandosi un lavoro.

Riepilogando, i servizi pubblici non potranno mai essere efficienti perché corrompono i loro stessi dipendenti. A questo punto, si potrebbe obiettare che, seppure i servizi pubblici sono inefficienti, comunque contribuiscono ad estinguere la piaga della povertà offrendo pane e lavoro a gente che altrimenti sarebbe disoccupata. Ma anche questo non è vero. La spesa pubblica crea più povertà di quella che estingue. Attraverso la sua politica di ridistribuzione forzosa, lo stato con una mano assiste i poveri e con l’altra li fa aumentare. I soldi che lo stato dà ai poveri sotto forma di sussidi e di posti di lavoro pubblici li prende prevalentemente alle imprese produttive. Per accontentare le richieste dei suoi assistiti, che diventano sempre più numerosi e sempre più esigenti, lo stato aumenta gradualmente, anno dopo anno la spesa pubblica, entrando così a cuor leggero nella spirale del debito. Per pagare il debito, lo stato aumenta le tasse. Quanto più aumentano le tasse, tanto più le imprese perdono competitività sul mercato. Le più sfortunate falliscono lasciando tutti i dipendenti per strada, le più fortunate si limitano ridurre il volume di affari e a ridurre il personale. Se dalle prime lo stato non riceverà più nulla, dalle seconde riceverà sempre meno. Quindi, l’eccessivo carico fiscale da una parte fa aumentare la disoccupazione e dall’altra fa diminuire il gettito fiscale. In altri termini, lo stato avrà più poveri da assistere e meno soldi per assisterli. Se a questo punto lo stato vuole continuare a mandare avanti le sue politiche assistenziali, dovrà aumentare ulteriormente il carico fiscale provocando una ulteriore diminuzione del gettito fiscale…  

Insomma, il serpente del fisco finisce sempre per mangiarsi la coda. Ma piuttosto che assistere i poveri con i soldi estorti alle imprese, non sarebbe meglio mettere le imprese nella condizione di creare posti di lavoro per i poveri? Ci vuole molto a capire che se lo stato la smettesse di taglieggiare le imprese ci sarebbero meno poveri? Insomma, il trasferimento forzoso di ricchezza dalle tasche di coloro che la ricchezza la producono alle tasche dei poveri, non serve a rendere i poveri meno poveri ma a rendere tutti più poveri. Serve solo a soddisfare una bestia famelica che si annida nel cuore di ogni uomo: l’invidia.

Lo stato socialdemocratico non mira tanto ad aiutare i poveri quanto a punire i ricchi per soddisfare l’invidia dei poveri. “Anche i ricchi piangano” recitava un famoso manifesto della sinistra. Ma chi sono i ”ricchi”? Diciamo subito che i ricchi di oggi sono ben diversi dai ricchi di ieri. Nei secoli passati, i ricchi erano aristocratici senza meriti che sfruttavano i poveri. Ma non esiste più da tempo una aristocrazia di sangue. Se non tutti, almeno gran parte di quelli che chiamiamo “ricchi” sono individui di successo, che si sono arricchiti mettendo a frutto i loro talenti. Quindi oggi la ricchezza, poco o tanto, dipende dal merito. Ed è stato ripetuto più volte che senza meritocrazia non c’è progresso. Se i più bravi sono messi nella condizione di fare fruttare economicamente i loro talenti, ci saranno vantaggi non soltanto per loro ma per tutta la società. Se gli affari di Steve Jobs e Bill Gates vanno bene, ci sono più posti di lavoro per tutti. Quindi, dal momento che oggi non tutti i ricchi sono parassiti immeritevoli, colpire i ricchi significa colpire anche e soprattutto i più meritevoli. Quindi, lo stato che fa dell’invidia sociale il suo ideale ispiratore ostacola il progresso.

Ma purtroppo l’invidia è un vizio potentissimo. Fare leva sull’invidia sociale è il metodo più sicuro per vincere le elezioni. Certo, il politico a caccia di voti non dice “invidia”. Dice “ridistribuzione delle ricchezze”, che è ormai una formula magica per attirare applausi. Accecata dall’invidia, la maggior parte della gente non vuole capire che la “ridistribuzione delle ricchezze” non è la soluzione ma il problema. Secondo la nuova “grande narrazione” (per riprendere una fortunata espressione con cui il post-modernista Lyotard si riferisce alle dissolte ideologie moderniste) diffusa dall’efficientissima macchina della propaganda di sinistra, l’attuale crisi economica mondiale sarebbe stata causata dal Capitalismo Globale e dal suo braccio armato finanziario, il cui covo sarebbe a Wall Street. In effetti, non si può negare primo che i finanzieri abbiano molte responsabilità e secondo che nell’ultimo decennio l’economia finanziaria sia cresciuta parecchie volte di più dell’economia reale. Ma perché è cresciuta così tanto? La verità è che la crescita esponenziale della speculazione finanziaria e non è la causa ma casomai è uno degli effetti della crisi. La finanza cresce troppo perché l’economia occidentale non cresce più; l’economia occidentale non cresce più perché gli stati la dissanguano con le tasse. Quindi, completando il sillogismo, sono le tasse a scatenare l’ipertrofia finanziaria e, con essa, la crisi.

L’attuale crisi globale non è che l’effetto inevitabile di più di cinquant’anni di politiche assistenziali e keynesiane adottate da tutti i paesi occidentali. La maniera in cui lo stato “ridistribuisce le ricchezze” consiste nel trasferire più della metà dei guadagni dei soggetti produttivi e responsabili nelle tasche di soggetti nel migliore dei casi poco produttivi, nel peggiore si farebbe prima a pagarli per scavare buche e ricoprirle. In sintesi, lo stato per più di cinquant’anni ha costretto le formiche a mantenere le cicale. Adesso i sobri governi tecnici che nessuno ha votato chiedono sobriamente alle formiche non soltanto di continuare a mantenere le cicale, ma anche di pagare i debiti delle cicale. E no, questo è troppo. Sappiano i sobri governi fatti di sobri tecnici dalla lacrima facile che c’è una sola soluzione alla crisi: dimezzare le tasse e mandare le cicale a lavorare. Fuor di metafora, si taglino le varie forme di sussidi pubblici, si blocchino immediatamente le assunzioni negli uffici pubblici, si mandino i fannulloni in esubero a cercarsi un lavoro vero.

Soprattutto, si affidino allo stato solo quei compiti essenziali che non possono essere affidati ai privati: l’amministrazione della giustizia, la costruzione di strade ed infrastrutture pubbliche eccetera. Gli altri servizi pubblici, a partire dai servizi ospedalieri, si privatizzino immediatamente. Solo nel momento in cui si dovranno confrontare con la concorrenza, i servizi pubblici diventeranno efficienti ed economicamente virtuosi. Solo nel momento in cui saranno libere dall’oppressione delle cicale, le formiche torneranno a produrre ricchezza. Ma ad una condizione: che le formiche facciano le formiche e non cedano alla tentazione di trasformarsi in lupi pronti a sbranare economicamente gli agnelli alla prima occasione. Perché se tornano i lupi che concentrano le ricchezze nelle loro mani, torneranno anche, più forti e seducenti di prima, le sirene socialiste e socialdemocratiche pronte a trasformare i poveri in cicale parassite. Insomma, i signori ultraliberali ortodossi laicisti e atei si mettano i testa che il “laissez faire” non è la soluzione, ma è l’origine del problema del keyesismo. Se noi oggi siamo dissanguati dallo stato vampiro è perché due secoli fa la gente chiese al vampiro di proteggerla dalle razzie dei lupi. Finché non verranno meno le razzie dei lupi, non verrà meno il vampiro. E finché o verrà meno il vampiro, l’Italia finirà di precipitare nel terzo modo, per la felicità degli stranieri che sputano sull’Italia e che non vedono l’ora di comprare a prezzi stracciati tutte le imprese di eccellenza italiane. Cara Merkel e caro Sarkozy, la sentite questa voce? Vaffanbicchiere.

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