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Luisa Muraro. O della necessità del ragionar di Dio

Persico Roberto
12/10/2006 - 0:00
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Un paio d’anni fa, ad Asolo. Suor Natalina sta raccontando del lavoro suo e di suor Fabia con delle ragazze “difficili”. A un certo punto dice: «Fabia e io poi aggiungiamo: “Dio solo ci basta”». Alla fine non ci sarebbe dibattito, ma Luisa Muraro si alza lo stesso, chiede la parola e replica: «Questo inciso, presentato come qualcosa che si applica a lei e Fabia, introduce un errore, e cioè che Dio riguarderebbe loro per via della loro scelta religiosa, con il sottinteso che Dio non c’entra con chi non ha fatto questa scelta. Certo, la civiltà moderna ci ha obbligati a ragionare così e cioè a fare dipendere i discorsi su Dio da una previa dichiarazione di fede. Non viviamo in una civiltà religiosa quindi non si può tirare fuori Dio parlando di questo e di quello. Bisogna che lo facciamo passare dalle scelte religiose: questo legittima che si parli di Dio. Ma io questo passaggio non lo accetto».
Dalla reazione di Luisa nasce un rapporto, poi un incontro, poi un gruppo di persone di provenienze e appartenenze diversissime – donne, uomini, suore, laici, sposati, single, credenti, agnostici – che per un paio d’anni si ritrovano a parlare di Dio. Liberamente, lontano dagli schemi di un «regime (lo chiama proprio così, regime) in cui, fuori da un uso previsto e prevedibile, il nome di Dio non si può fare». Oggi quel lavoro è diventato un libro. Ne parliamo con Luisa Muraro nella sua bella casa di Milano, un appartamento luminoso a Porta Ticinese pieno di libri accatastati ovunque.
Perché dunque quella reazione, intorno a cui in fondo ruotano tutte le conversazioni del gruppo?
Perché io non so se Dio esiste, ma se esiste e qualunque cosa voglia dire questo nome, Dio vuole entrare nella vita di ciascuno e di ciascuna. La questione che pongo è questa: nella società moderna tu non puoi parlare di Dio se non con la premessa “io sono credente”. Dopo di che puoi parlare del tuo Dio quanto vuoi. Io da questo punto di vista non sono moderna. Da questo punto di vista sono addirittura, in un senso assolutamente non fondamentalista, vicina ai fondamentalisti, e dico che o di Dio si può parlare quando e come capita, oppure non parliamone mai. I preamboli che noi facciamo rendono irrilevante il parlarne.
Infatti nel libro c’è a un certo punto un botta e risposta in cui lei dice: «Io credo che anche per te, Marco, c’è l’essere umano e da qualche parte, sopra, sotto o sulla sua faccia.» «. c’è Dio!» conclude Fabia. Marco ribatte: «Ma non c’è immediatamente, c’è il bisogno di Dio, c’è il desiderio di Dio, c’è la richiesta di un Dio.».
«C’è immediatamente o non ci sarà mai» è la sua replica.

Sì, o è una presenza, o non c’è. Io ho studiato filosofia con Bontadini, tutto il suo lavoro sulla mediazione intellettuale fra l’uomo e Dio. Ma Dio se non c’è fin dall’inizio, non c’è più. È quello che capiscono le donne.
Perché le donne?
Perché le donne hanno dei “percorsi abbreviati”. Perché per loro il rapporto è costitutivo, “sono” la madre da cui derivano e il figlio in cui si prolungano. Appartiene alla loro natura l’esperienza – o la possibilità – di diventare due, di diventare un altro, l’apertura all’imprevisto. L’amore entra in modo costitutivo nel pensiero delle donne. Non è un caso che nel Novecento la ragione moderna – che è astratta, separata dal vivente – sia stata combattuta da tante donne: Edith Stein, Simone Weil, Iris Murdoch, che proprio a Oxford, nel covo della ragione analitica, combatte la sua battaglia contro i pregiudizi antimetafisici.
Parla di ragione moderna, le chiediamo del discorso del Papa a Ratisbona, non l’ha ancora letto. Ci farà poi cortesemente avere un testo scritto per la rivista on-line delle donne cui collabora, Diotima. In cui non manca qualche accento critico, ma per l’essenziale – vedi box – la lezione sulla ragione è accolta e condivisa: «Quello che traspare, in ogni caso, è un intento di attualizzazione della storia conflittuale fra cristiani e islamici, che certamente è finalizzato non allo scontro bensì al confronto». Intanto ci legge pagine bellissime sulla “maternità di Dio” delle sue amate mistiche del Trecento, cita la prediletta Hadewijch di Anversa: «Gli occhi dell’anima sono la ragione e l’amore».
Perché tanta attenzione per un passato così remoto, solitamente liquidato come oscuro?
Per risalire alle spalle della scienza e della tecnica moderne, che hanno la presunzione di una conoscenza esaustiva della realtà, mentre per i premoderni era centrale lo stupore. Sapevano poco ma vedevano di più; e vedevano le cose sullo sfondo di questo “di più”. Mentre la nostra società impedisce questa esperienza. La società consumista eccita grandi desideri ma poi offre risposte inadeguate. Quando torno nel mio Veneto lo trovo arricchito, ma intristito. E i figli non sono più riconoscenti. Per cosa dovrebbero esserlo? Perché mangiano? Sono contenta che non ci sia più la fame, ma non è lì l’umano. Per questo Leopardi è stato un grande filosofo: è stato il primo a percepire il vuoto in cui stava precipitando l’età moderna. Certo, non facciamo della nostalgia del “buon tempo andato”; ma non perdiamo il buono che c’era. Che era legato all’aspetto religioso. Perché per dire l’essere umano bisogna dire anche Dio. Questa è una posizione che so bene che nella modernità non viene accettata, ma io non posso farne a meno: per amare un essere umano, bisogna, in qualche maniera, che c’entri Dio.
Ma tu credi in Dio?
Non ha importanza. Vedi, alle mie studentesse dico sempre: non mettere mai un uomo al posto di Dio. Non credi in Dio? Non importa, neanch’io ci credo, però il posto glielo devi lasciare, deve restare vuoto. Che cosa significa il posto vuoto? Significa tutto quello che in me sporge su niente, tutto quello che in me non si basta, tutto quello che in me è bisognoso di., tutto quello che in me piange e piangerà fino all’ultimo.
Questioni scomode nel tuo ambiente culturale. Perché ti ostini a porle?
Perché c’è di mezzo una questione mia personale, di salvezza di me.

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