L’Idv di Antonio Di Pietro è il partito più in crisi. I numeri della disfatta

Di Emanuele Boffi
25 Maggio 2011
Un po' l'ex pm di Mani Pulite lo ha ammesso, un po' cerca di nascondere che peggio del Pdl e di Fli ha fatto solo il suo partito, che ha dimezzato i consensi ovunque. Tranne a Napoli dove, però, proprio il successo di De Magistris è la certificazione più chiara del suo fallimento

Essendo l’attenzione dei media totalmente (e inevitabilmente) catalizzata dai ballottaggi di Milano e Napoli, è passato sotto silenzio il flop dell’Italia dei valori (Idv). Come scritto da Roberto D’Alimonte sul Sole 24 Ore e già segnalato da tempi.it, il partito di Di Pietro è andato «bene al Centro (grazie all’effetto Napoli)», ma «malissimo negli altri comuni. È il partito che perde di più. Complessivamente il calo è pari a quasi il 38 per cento dei suoi elettori del 2010».

In un’intervista a il Fatto quotidiano lo ha riconosciuto lo stesso Di Pietro: «Abbiamo perso voti». La spiegazione politica offerta dall’ex pm è che «siamo stati i primi in Italia a fare la protesta. Siamo stati nelle piazze, abbiamo urlato. Ma adesso la stagione è finita: ne sta iniziando un’altra, è tempo di costruire».

Staremo a vedere il nuovo Idv “di governo”. Di certo, quel che dicono i dati è che il partito ha sostanzialmente dimezzato i suoi consensi e, se non fosse stato per l’effetto Napoli, dove è stato candidato con successo Luigi De Magistris, il disastro sarebbe stato anche mediaticamente più evidente. Tra l’altro, va sempre fatto notare che il vulcanico De Magistris può – e a ragione – intestarsi totalmente la conquista del ballottaggio. Egli ha infatti raccolto in città 128 mila preferenze. L’Idv gliene ha portate solo 33 mila. Questo spiega anche perché De Magistris sin dalle prime ore – sebbene Di Pietro abbia cercato di fare il contrario – abbia tentato di presentarsi come un candidato più forte del suo partito. E’ innegabile: i numeri sono dalla sua (e il problema politico tutto per Di Pietro).

Se poi andiamo a raffrontare i risultati dell’Idv in queste elezioni amministrative con i risultati del partito alle ultime regionali del 2010, il calo risulta ancora più evidente. Alcuni esempi (il primo numero si riferisce alle regionali, il secondo alle comunali):

Arezzo: 9,1 / 4,0
Benevento: 10,0 / 2,9
Bologna: 7,7 / 3,7
Caserta: 10,7 / 2,5
Catanzaro: 5,0 / 0,7
Cosenza: 9,9 / 3,2
Grosseto: 9,0 / 4,0
Milano: 7,6 / 2,5
Olbia: 9,1 / 4,7
Ravenna: 6,7 / 3,2
Salerno: 7,1 / 0,7
Savona: 10,1 / 5,0
Siena: 8,6 / 2,4
Torino: 9,4 / 4,7
Varese: 6,7 / 2,7

Si potrebbe obiettare che, in realtà, il confronto andrebbe fatto con le comunali del 2006, ma – come ha fatto notare l’istituto Cattaneo – a quel tempo la geografia politica italiana era molto diversa dall’attuale. Non esistevano, infatti, Pdl, Pd, Fli, Api e Sel. Quindi, il raffronto con le regionali del 2010 è quello più consono per fotografare lo stato di salute di un partito. Come ha scritto sul suo blog Alberico Giostra – giornalista che conosce bene Di Pietro cui ha dedicato anche un libro, Il tribuno – «rispetto allo scorso anno l’Idv è passato da 164.000 voti a 102.000, perdendo il 40,7%. Considerando il voto dei comuni superiori ai 15.000 abitanti, l’unico calcolabile visto che in quelli più piccoli ci sono solo liste civiche, l’Idv ha preso in Piemonte il 3,84%, in Lombardia il 3,29%, in Veneto il 2,86%, in Friuli V.G. il 3,87%, in Emilia Romagna il 3,94% (abbiamo contato anche Salsomaggiore dove Idv correva con Sel riportando l’ottimo 4,59%) in Toscana il 4,76%, in Sardegna il 4,11%, nel Lazio il 3,18%, nelle Marche il 5,80% (su soli tre comuni calcolati), in Basilicata il 7,70% (su due soli comuni) in Calabria il 3,47%. In Liguria di comuni sopra 15.000 abitanti al voto c’era solo Savona (4,8%), in Molise nemmeno uno, e in Umbria solo due, Assisi e Città di castello (3,65%) in attesa che si voti a Gubbio. Se questo è un buon risultato giudicate voi».

Dove sono andati a finire quei voti? Facile immaginarlo: a Sel di Vendola e ai Grillini. Questo spiega la “svolta governativa” di Di Pietro? In parte sì, poiché gli serve confondersi in qualche amalgama più grande per nascondere il suo fallimento. In attesa di vedere cosa accadrà in futuro. La fine di un certo berlusconismo potrebbe essere la fine anche di un certo anti-berlusconismo.

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