L’emergenza non diventi un mezzo per scardinare lo stato di diritto

Di Alfredo Mantovano
13 Aprile 2020
In tempi eccezionali sono emanate norme eccezionali. Ma non tutto può rimanere tale. Il caso delle "raccomandazioni" della società italiana anestesisti
Un medico in un reparto per malati di coronavirus

Articolo tratto dal numero di aprile 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Uno degli effetti del Covid-19 è, insieme con tante sofferenze e lutti, la produzione di una legislazione e di un’azione di governo “di emergenza”. Un effetto scontato, al di là dei contenuti, a causa dell’urgenza di emanare norme di immediata attuazione.

Già da adesso, tuttavia, conviene fare attenzione a ciò che ha natura emergenziale, ma che certamente non potrà trasformarsi in qualcosa di ordinario. Per soffermarsi solo su un esempio e rendere l’idea, il 6 marzo Siaarti – la società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva  – ha pubblicato le Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, che parte dalla constatazione dell’«enorme squilibrio tra le necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di risorse intensive».

Le Raccomandazioni Siaarti sono state seguite, il 7 marzo, da una preoccupata nota del dottor Filippo Anelli, presidente della Fnomceo, federazione degli Ordini dei medici, che richiama al rispetto del codice deontologico e alla eguale cura, senza discriminazioni, dovuta dal medico al paziente.

L’emergenza sta rivelando la generosità dei medici e degli infermieri, soprattutto nei reparti che li espongono direttamente a gravi rischi per la salute. Sarà interessante vedere quanto resterà, una volta rientrati nella normalità, della gratitudine diffusa e sincera verso questo lavoro: una reazione adeguata sarebbe rivedere quel rapporto tendenzialmente contrattualistico fra medico e paziente, formalizzato dalla legge n. 219/2017 in sostituzione del criterio di beneficialità, e quella tendenza alla denuncia facile da parte del paziente non soddisfatto che è alla radice, insieme con altro, della codiddetta “medicina difensiva”.

Quest’ultimo peraltro è un atteggiamento maturato in parallelo alla propensione dell’autorità giudiziaria a far seguire a ogni denuncia l’avvio di un procedimento penale a carico del medico. Un contesto del genere sembra alla base delle Raccomandazioni Siaarti, se il documento afferma espressamente che esse hanno anche lo scopo «di sollevare i clinici da una parte della responsabilità nelle scelte, che possono essere emotivamente gravose».

La preoccupazione – in sé fondata – è che non si creino assurde attitudini di colpevolizzazione dei medici, che non si favorisca la presentazione di querele pretestuose, che si eviti di dare seguito a denunce infondate, che si articolino regole per affrontare con minore angoscia una eventuale chiamata in giudizio. 

Grande è il rischio che, sulla scia di condizionamenti di altre nazioni, Regno Unito in testa, soprattutto su questo versante lo straordinario diventi ordinario. In un Forum all’interno del fascicolo n. 2/2020 di BioLaw Journal – Rivista di Biodiritto, Caterina di Costanzo e Vladimiro Zagrebelsky  ipotizzano che «nel nostro ordinamento le indicazioni contenute in raccomandazioni (…) potrebbero costituire uno strumento di indirizzo e supporto alla pratica professionale e, nel caso specifico delle Raccomandazioni di etica clinica, potrebbero rappresentare una attuazione peculiare di alcune previsioni deontologiche. (…) Uno fra i compiti che le Raccomandazioni potrebbero svolgere per definire l’appropriatezza e la qualità delle prestazioni in medicina potrebbe essere quello di fornire al singolo medico un indirizzo rispetto a alcune scelte da fare anche secondo una logica di impiego razionale ottimale delle risorse».

Un ragionamento simile è inaccettabile. Intanto, se la situazione è eccezionale, essa non può sottostare a regole di carattere generale e astratto, se pure nella forma delle “raccomandazioni”: un documento con indicazioni generali è logicamente incompatibile con quello stato di emergenza che sfugge alle catalogazioni. In realtà, le “raccomandazioni” risentono dei più recenti interventi normativi e giurisdizionali in tema di fine vita. È sufficiente leggere il n. 5 di esse, che invita a considerare «con attenzione l’eventuale presenza di volontà precedentemente espresse dai pazienti attraverso eventuali Dat (disposizioni anticipate di trattamento)». 

Come per le Dat, le “raccomandazioni” patiscono il limite logico di indicazioni – con carattere più o meno vincolante – “ora per allora”: possono costituire un orizzonte di massima, non un principio cogente, proprio perché sono espresse in termini generali, prescindendo dalla concretezza del caso che si presenta con caratteristiche proprie, specifiche, non sempre previamente catalogabili.

Ogni condotta va sempre valutata connessa alle circostanze che l’hanno accompagnata, non a quelle future: fra le ricadute negative della legge n. 219/2017 e della sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019 sul suicidio assistito, vi è la consacrazione normativa di una mentalità che mette fuori gioco determinate categorie di persone, e che rischia con questa emergenza di conoscere un ulteriore salto di qualità.

È evidente che nel caso di più pazienti egualmente gravi in presenza di un solo posto nel reparto il medico dovrà valutare tenendo conto del quadro clinico complessivo, cioè, unitamente alle altre circostanze, anche dell’età, che incide sulle prospettive complessive di guarigione. Diverso è però il programmato preventivo abbandono dell’anziano o del disabile, in attesa di pazienti più meritevoli. Se arriva in reparto una persona che può essere salvata, nessuna “raccomandazione” può dissuadere dal curarla sulla base della previsione che altri potrebbero in seguito avere bisogno della terapia intensiva. Non possono esserci criteri diversi dalla appropriatezza clinica, considerata sotto l’aspetto della ragionevole speranza di guarigione: ogni altro criterio apre le porte a una discrezionalità che sfocia nell’arbitrio sanitario.

L’emergenza terminerà: con costi umani e con sacrifici enormi, in tempi oggi non prevedibili. Nessuno pensi che “raccomandazioni” varate con le migliori intenzioni in un tempo eccezionale, domani divengano i criteri ordinari, a fronte di risorse per la sanità strutturalmente limitate.

Nessuno pensi di strumentalizzare l’emergenza non solo per far passare ora, ma soprattutto per far restare a regime, stravolgimenti dello stato di diritto e del rispetto della persona, qualunque sia la sua condizione. Conviene attrezzarsi da subito per una battaglia che sarà anzitutto culturale, quindi giuridica e politica.

Foto Ansa

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