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Le sentenze dei tribunali che uccidono le imprese

Avere crediti con la p.a. non serve a compensare tasse e balzelli dovuti. Storie kafkiane di aziende trascinate nei gorghi di una giustizia tributaria vessatoria

Alessio Falsavilla
18/03/2013 - 8:16
Interni
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Il signor Rossi è un imprenditore che, messo alle strette dalla crisi, non ha versato l’Iva, né le ritenute fiscali e i contributi previdenziali dei suoi dipendenti. I suoi clienti, fra i quali la pubblica amministrazione (Pa), non hanno pagato le sue fatture per forniture e servizi resi. Così la poca liquidità che aveva a disposizione l’ha usata per pagare gli stipendi e i fornitori che non poteva ulteriormente tenere sulla corda. I suoi debiti per Iva e ritenute sono certificati, non ha dichiarato il falso: semplicemente non ha versato. Fino al 2006 avrebbe subìto un procedimento amministrativo che l’avrebbe obbligato, nel giro di due anni circa, a versare il dovuto più una sanzione del 30 per cento. Al giorno d’oggi, il signor Rossi vede aprirsi un processo penale contro di sé, deve assumere un avvocato e apprende che le sue telefonate e corrispondenze potranno essere intercettate; la cattiva fama e le spese impreviste lo costringono a chiudere la sua attività, lasciando senza lavoro i dipendenti e privando l’erario delle imposte che avrebbe in futuro versato se non fosse stato costretto a chiudere.
L’avvocato Bianchi ha uno studio col fratello in una città di provincia. A causa di una malattia lo studio conosce una forte flessione dell’attività per un anno. In forza di un accertamento presuntivo (studio di settore, redditometro o altro) la sua dichiarazione dei redditi viene giudicata infedele per una cifra superiore a 50 mila euro. Anche in questo caso, oltre all’irrogazione della sanzione amministrativa pari all’imposta presuntivamente accertata, scatta la causa penale. Per dimostrare l’inesistenza del reddito e la sua buona fede l’avvocato Bianchi dovrà penare e pagare.
Il signor Verdi, presidente di una società, opera in un distretto sede di una Procura nota per il suo attivismo. Viene chiesto al Gip di rinviarlo a giudizio per il reato di dichiarazione infedele in forza di un accertamento bancario di maggior reddito basato sulla contestazione delle uscite da conti correnti intestati a familiari e soci. Ma come si potrà in sede penale, non amministrativa, dimostrare che le uscite di conti correnti bancari sono un reddito evaso? Il penale si basa su fatti, non su presunzioni. Se però il Gip rinvia a giudizio, si sprecherà tempo e denaro per una faccenda che, secondo diritto, va giudicata penalmente irrilevante, salvo non si chieda di dimostrare l’indimostrabile.

UNA GIUSTIZIA VESSATORIA. Con l’economia in recessione, le imprese trascinate nei gorghi di una giustizia tributaria vessatoria e sbilanciata a favore della Pa sono sempre maggiori. In Italia la possibilità per un’impresa di compensare i crediti nei confronti dello Stato coi tributi a esso dovuti è minima e sottoposta a mille limitazioni. La Corte di Cassazione (nella foto) sentenzia abbastanza puntualmente a sfavore dei contribuenti e “a vantaggio” dello Stato in tutte le controversie di questo genere. Per i giudici della Cassazione, anche in stato di crisi, l’impresa deve pagare i tributi prima di ogni altra cosa, e la mancanza di liquidità al massimo può essere considerata circostanza attenuante. La situazione, però, è diventata talmente grave che l’anno scorso alcuni tribunali in sede penale hanno accolto le ragioni delle imprese. Di recente, il Tribunale di Milano ha assolto il rappresentante legale di un consorzio dal reato di omesso versamento dell’Iva in presenza di una situazione di difficoltà economica, testimoniata dall’emissione nei confronti di una società debitrice di un ricorso per decreto ingiuntivo di ingente importo. A Firenze un giudice ha assolto l’imputato affermando che l’omesso versamento dell’Iva non costituisce reato se il soggetto inadempiente, che peraltro ha sottoscritto con l’Agenzia delle entrate un piano di rientro, è costretto a evadere a causa delle gravi difficoltà economiche e della situazione di illiquidità nella quale si è venuto a trovare.
Andare avanti così è assurdo, lo spreco di risorse, il danno a imprese, economia e gettito tributario, l’intasamento di cause che contribuisce alla paralisi della giustizia in Italia, non sono più sopportabili. Servirebbe, soprattutto in questo momento, anzitutto la depenalizzazione del diritto tributario in tutti i casi in cui il reato riguarda accertamenti presuntivi o violazioni di omesso versamento di imposte dichiarate, e poi un’estensione e semplificazione della possibilità di compensazione fra debiti e crediti nei rapporti con la Pa. Con recentissima decisione, il Tribunale di Milano (Sezione GIP, n. 3926 del 2013) ha assolto il legale rappresentante di una società dalla contestazione del reato di mancato versamento delle ritenute nel 2008 (per circa 200 mila euro), in presenza di un grosso credito (di circa 1 milione e 700 mila euro) vantato da tempo nei confronti di enti pubblici, il cui ritardo aveva causato il dissesto economico dell’impresa. Il giudice ha assolto l’imputato in quanto il fatto non costituisce reato: «L’imputato è stato costretto a non pagare da un comportamento omissivo e dilatorio da parte di enti pubblici che avrebbero dovuto saldare fatture per forniture ricevute… il quadro di crediti accumulati è impressionante». Il dolo è stato escluso dal giudice in quanto «il fatto non era prevedibile e l’imputato ha fatto quanto umanamente possibile per evitarlo, rimettendosi in regola non appena è stato in condizioni di farlo».

SEMPLIFICAZIONE E COMPENSAZIONE. Andare avanti così è assurdo, lo spreco di risorse, il danno a imprese, economia e gettito tributario, l’intasamento di cause che contribuisce alla paralisi della giustizia in Italia, non sono più sopportabili. Servirebbe, soprattutto in questo momento, anzitutto la depenalizzazione del diritto tributario in tutti i casi in cui il reato riguarda accertamenti presuntivi o violazioni di omesso versamento di imposte dichiarate, e poi un’estensione e semplificazione della possibilità di compensazione fra debiti e crediti nei rapporti con la Pa.
Attualmente vigono due regimi per quel che riguarda i crediti commerciali verso la Pa e quelli tributari. Per i primi, la compensazione può essere attuata solo dopo che i tributi dovuti allo Stato sono stati iscritti a ruolo. Questo significa che sono stati maggiorati del 30 o del 100 per cento, perché queste sono le sanzioni per i tributi non versati nei termini previsti e per gli accertamenti di maggiori tributi dovuti. Per quanto riguarda i crediti tributari che un’impresa può trovarsi a vantare nei confronti dell’Erario, questi assolutamente non possono essere compensati in presenza di importi debitori iscritti a ruolo. Il creditore dovrà prima di tutto liquidare i suoi debiti iscritti a ruolo con lo Stato, poi potrà esercitare la compensazione su altri debiti tributari che può avere. Le cose stanno così anche se il contribuente ha impugnato la contestazione tributaria che ha dato origine al debito.
Si segnalano vicende kafkiane, dove l’imprenditore si vede dare ragione dai giudici tributari in primo e secondo grado, ma l’Amministrazione finanziaria decide di andare in Cassazione e intanto nega il rimborso dei crediti d’imposta che spettano alla società. Non solo, ma in un caso come questo all’impresa vengono negati i certificati attestanti i corretti adempimenti contributivi (Durc) richiesti per poter lavorare. E così l’impresa non può più lavorare nemmeno per clienti diversi dalla Pa. Servirebbe perciò, in tanto clamore e rumore sulla “lotta all’evasione”, un riequilibrio dell’azione dell’Agenzia delle Entrate, che troppo spesso sembra impiegare i poteri di controllo per accertare “comunque”, anziché per accertare l’effettivo dovuto. Su queste tematiche non si intravvedono azioni apprezzabili. E intanto la situazione peggiora.

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