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Le cose viste con Letizia. Storia di una ragazza affetta da sindrome di Down (e delle sue splendide [link url=https://www.tempi.it/fotogallery/guardare-la-realta-con-letizia#.UoZmHWSLL0E]fotografie[/link])

Ha 22 anni, lavora in un asilo nido e scatta foto perché «i posti sono bellissimi». La sua prima mostra sosterrà la Fondazione dedicata a Jérôme Lejeune, scopritore della sindrome di Down. «Un medico che curava le persone come me»

Laura Borselli
18/11/2013 - 2:00
Interni
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«Devo venire con voi, se no il biglietto gratis non ve lo fanno». Nel weekend di debutto dell’ultima pellicola di Checco Zalone Letizia Morini è contesissima dai suoi familiari. I ragazzi Down al cinema entrano gratis e così la persona che li accompagna. Consapevole di essere la sola e unica titolare legittima del privilegio, Letizia si concede con misura. Del resto il weekend è il suo momento di svago. Quando stai tutta la settimana a lavorare in mezzo a bimbi di età compresa tra gli uno e i due anni, i sabati e le domeniche sono sacri, tempo libero da impiegare senza scocciature.

Maria Letizia Morini oggi ha 22 anni. Sua mamma Ester ha capito che aveva la sindrome di Down una mattina in ospedale a Pesaro. Prima, nel turbinio degli ormoni e delle emozioni del dopo parto, Ester era solo interdetta perché i medici non si decidevano a dimetterla mentre a casa l’aspettavano altre due bambine, Martina di 6 anni e Giovanna di 3. Tanta gente che veniva a trovarla, qualcuno, ricorda oggi, con una frequenza sospetta. Intanto lei, insegnante di storia dell’arte, guardava la sua Letizia scherzando sul fatto di non trovarla bellissima. Non che le importasse. Però c’erano tante cose che non tornavano quei giorni.
Poi una mattina Maurizio è entrato in stanza e sono bastati i suoi occhi rossi a capire: «È Down, vero?». Marito e moglie non hanno bisogno di parlarne. «È figlia nostra, la teniamo». Uscendo dall’ospedale Ester guarda l’amica Daniela: «Cosa farà quando io non ci sarò più?». «Non pensare a queste cose. Ci penseremo quando sarà ora. Vivi adesso, vivi il presente». «Che per me voleva dire – racconta oggi Ester –: fai tutto, una cosa alla volta».

Guardare la realtà con... Letizia
Alcune delle foto di Maria Letizia Morini. La sua prima mostra aprirà il 24 novembre a Pesaro col titolo «Guardare la realtà con... Letizia». Il ricavato della vendita del catalogo andrà alla Fondazione Lejeune, che sostiene la ricerca sulla sindrome di Down, da cui è affetta anche Maria Letizia
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 Una cosa alla volta. E l’elenco non è diverso da quello di qualunque neogenitore. Il passeggino, il seggiolino per la macchina, i pannolini, il latte. E poi, certo, c’è quella parola che in casa continua a girare: Down. A pochi mesi di vita Letizia viene operata al cuore, come accade a quasi tutti i bambini nati con la sua stessa sindrome. Martina, 6 anni, un giorno va dalla mamma: «Down, non è solo una cosa che riguarda il cuore, vero?».
Ester e Maurizio aspettavano questo momento. La neuropsichiatra che li seguiva si era raccomandata: aspettate che siano le sorelle a porre il problema, vivete normalmente. Una cosa alla volta, appunto. «Vedi Martina, Down sono quei bambini con gli occhi un po’ distanti, la lingua particolarmente grande, l’alluce divaricato dalle altre dita dei piedi. E poi parlano più tardi degli altri, camminano più tardi degli altri». Martina li guarda sorridendo come a mandarli bonariamente a quel paese, con un modo di fare che ha ancora oggi: «Eh, esagerati! La Letizia mica è così!». «Lei non vedeva un elenco di difetti. Vedeva sua sorella».

Il 24 novembre Maria Letizia Morini inaugurerà, nel centro di Pesaro, la sua prima personale di fotografia. Circa un centinaio di immagini selezionate e preparate con l’aiuto dei genitori, delle sorelle e degli amici. Ci sono Caltagirone, il porto di Pesaro coperto dalla neve, coppie di amici di famiglia, coltelli, tanti particolari di cibo. E ancora: piedi, medicine, interni di borse. Perle estratte da un archivio di circa 7 mila immagini. Si occupa lei di trasferire le foto dalla macchina al computer, mamma Ester non è capace. Non guarda spesso i frutti del suo lavoro, quello che le interessa è il momento dello scatto.

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Il babbo e la Canon nuova
Se le si chiede il perché di questa mostra, che comunque la inorgoglisce non poco, risponde: «Le foto le faccio io e i posti sono bellissimi. Io amo fare le fotografie, me lo ha insegnato il babbo». Quel babbo che un giorno è tornato a casa con una Canon da 600 euro. Era stata Letizia a insistere: la macchinetta digitale della cresima delle sorelle non le bastava più. «E c’era bisogno di spendere così tanto?». Ester si arrabbia: va bene tutto ma come si fa? Non ne vale la pena. Come se in casa si navigasse nell’oro. E se poi le cade?
In tutti questi anni la Canon non è mai caduta. Letizia se la porta dietro dappertutto. C’è anche chi le ha chiesto di fare foto al proprio matrimonio, ma lei accetta l’ingaggio solo per la festa. «In Chiesa le foto non si fanno», sentenzia.

Dal 2008 lavora in una scuola paritaria della città, La Nuova Scuola, l’istituto che ha frequentato lei stessa con un insegnante di sostegno fin dall’asilo. Dopo il diploma di scuola media si poneva il problema di cosa fare. I suoi amici andavano al liceo, le uniche scuole attrezzate per accogliere una persona come Letizia erano l’istituto d’arte e l’alberghiero. Non era quello che cercavano. Così Ester e Maurizio cominciano ad interessarsi per un lavoro. La collaborazione con gli assistenti sociali si interrompe quando l’unica proposta che arriva è quella di frequentare una scuola per disabili. Poi ecco, inaspettata, la proposta de La Nuova Scuola: un lavoro all’asilo nido.
Letizia entra come aiuto bidella e dopo tre anni diventa aiutante delle maestre. Porta i bimbi al bagno, li imbocca al momento del pranzo, li consola quando piangono, consegna loro le giacche e li restituisce ai genitori alla fine della giornata. Lei, che generalmente con la memoria ha un po’ di problemi, sui nomi dei bambini e quelli dei rispettivi genitori non ha mai un’esitazione. Quando glielo si chiede risponde che il lavoro le piace, è impegnativo. I colleghi? Alcuni le vanno a genio, altri meno. Non manca di dire la sua anche sull’educazione dei bambini.

Letizia ama parlare da sola. Una volta Ester l’ha trovata impegnata in una lunga conversazione con se stessa all’asilo e l’ha sgridata. «Può farlo in casa, è una cosa che la rilassa, ma durante il lavoro no». Lei e Maurizio su questo sono categorici. Un giorno Ester va a prenderla alla Nuova Scuola. Arrivando sente la voce inconfondibile della sua ragazza. «Ecco, ci risiamo», pensa mentre corre verso l’aula. Ad ogni passo la rabbia monta, i nervi si tendono. Ester è pronta a esplodere quando apre la porta e trova Letizia che arringa una ventina di bambini. Seduti, immobili, nessuno fiata. Diavoletti sotto il metro trasformati in agnelli mansueti.

Il libro e la Fondazione Lejeune
«Durante la mostra venderemo un libro con le foto di Letizia – spiega la famiglia Morini – e il ricavato andrà alla fondazione Lejeune». «Ti ricordi chi era Lejeune?». «Uno che aveva una figlia come me, vero?» «Non proprio. Curava i bambini come te e li trattava tutti come suoi figli. Abbiamo visto una foto del dottore insieme a una bambina Down che ti somigliava tantissimo. Tant’è vero che la guardavi e dicevi: “è uguale a me”». In effetti l’idea di organizzare le foto di Letizia in una esposizione è nata dopo l’incontro con la figura del genetista francese scopritore della sindrome di Down, conosciuto tramite la mostra dedicatagli dal Meeting di Rimini nell’agosto dello scorso anno e portata pochi mesi dopo a Pesaro.
«Non c’era mai stata una risposta così forte della città a una mostra del Meeting. Sono venute autorità e gente comune, anche diverse classi di scuole statali che per la mostra di Letizia hanno scritto dei testi bellissimi», spiega Ester. «Non c’erano solo genitori di bambini disabili, ma chiunque. Io credo che sia una cosa che interessa perché su questi ragazzi c’è un margine di bellezza straordinario».

La “letteratura” sul tema dice che offrire tanti stimoli a un Down è fondamentale per la sua crescita. Dal nuoto all’ippoterapia. «Tutte cose buone e utili ma la cosa che ci ha aiutato di più è stata la neuropsichiatra da cui ci siamo recati per due anni una volta ogni due mesi. Ogni volta ci chiedeva come stavamo io e Maurizio, come andavano le cose tra noi. Se parti dallo stimolo che devi dare al bambino non ne esci più. Esattamente come accade con qualunque altro figlio».

Per inaugurare la mostra Letizia progetta un bel rinfresco. Ci devono essere pizzette, acqua e prosecco per tutti. Alle feste tiene molto. Il suo compleanno, il 17 aprile, è un evento con tema diverso ogni anno, agli ospiti è richiesto un certo grado di eleganza. Lo stesso che lei tiene per se stessa, con la passione per i vestiti e la minuziosa cura del corpo che ha imparato dalle sorelle. Per il giorno del rinfresco della mostra sarà previsto uno strappo alla dieta. La dieta di Letizia non si perde nell’identificazione di carboidrati e proteine ma draconianamente prevede una divisione a metà di tutto ciò che il suo vorace appetito le fa venire in mente: «Invece di mangiare una pizzetta ne mangio metà oppure solo il primo o solo il secondo». Ciononostante l’esame periodico della pancetta la fa esplodere nell’ormai proverbiale esclamazione: «Maledetta piadina!».

«È vero, siamo dei privilegiati»
La mostra del Meeting di Rimini su Jerome Lejeune, a Pesaro, è stata accompagnata da raccolte fondi e un incontro con il dottor Pierluigi Strippoli, professore di Biologia applicata all’università di Bologna e responsabile del laboratorio di Genomica dell’ateneo. Lavorando sulla strada di Lejeune, Strippoli è convinto che prima o poi la trisomia 21 si potrà curare. «Della cura per questi ragazzi non si parla mai», osserva Ester notando che le scoperte più note sono quelle che permettono l’identificazione precoce e magari con metodologie non invasive dell’anomalia, preludio, spesso, all’eliminazione precoce del malato. «Dopo che era nata Letizia incontrammo don Giussani che ci disse: sono bambini capaci di chiedere amore, consideratelo un grande privilegio. Non ci ha detto che sono bambini che possono migliorare, che vanno stimolati. Anni dopo, lui era già molto avanti negli anni, si è commosso quando gli abbiamo detto che aveva ragione: siamo dei privilegiati».

Se c’è una battaglia, in questa casa addossata al porto di Pesaro dove tutto ha il passo misurato della normalità, è quella per togliere il recinto intorno alle persone come Letizia. Uno dei cognati di Letizia lavora in una comunità per disabili in cui ci sono anche ragazzi Down. Ogni tanto Letizia si offre di dargli una mano. Come operatore, ovviamente.

Tags: downFondazione LejeuneJérome Lejeunepesarosindrome di down
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