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La verità sul caso Domenici, l’ex sindaco rosso di Firenze fulminato dal cortocircuito mediatico-giudiziario che spianò la strada a Renzi

Le clamorose motivazioni con cui i giudici hanno demolito uno scandalo politico

Pietro Piccinini
16/11/2013 - 4:00
Interni
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Può in Italia una amministrazione comunale cambiare idea e decidere, in piena autonomia e trasparenza, di far costruire entro i propri confini uno stadio al posto di un parco?

In fondo si riduce a questo interrogativo la vicenda giudiziaria che alla fine del 2008 travolse la giunta di Firenze guidata allora da Leonardo Domenici, vicenda terminata solo a marzo di quest’anno, dopo ampio sputtanamento delle persone coinvolte, con l’assoluzione di tutti gli imputati (a parte uno, condannato per accuse minori), e tornata in primo piano grazie a una lettera inviata al Corriere della Sera dallo stesso ex sindaco toscano, oggi eurodeputato, proprio per sottolineare l’ingiusta «sproporzione fra il rilievo mediatico (molto ampio) dato all’inchiesta e quello (molto più limitato) della conclusione del processo».

È una storia che vale la pena di ripercorrere con l’aiuto delle motivazioni prodotte pochi giorni fa dalla Corte di assise di Firenze, perché – come ha spiegato lo stesso Domemici a tempi.it – dimostra l’esistenza nel nostro paese di un «cortocircuito politico-mediatico-giudiziario» che va interrotto con le necessarie riforme prima che faccia saltare ogni residua garanzia e ogni «principio di giustizia». In bocca a un uomo che si è fatto tutta la trafila di sinistra dal Pci al Pds ai Ds al Pd, non esattamente un berlusconiano, sono parole che fanno notizia.

Tutto ruota intorno a 168 ettari di terreno nell’area di Castello, quartiere nord-occidentale di Firenze. Siamo nel 2008 e quel terreno appartiene a Fondiaria-Sai, gruppo Ligresti. C’è un accordo tra i Ligresti e Palazzo Vecchio che risale addirittura al 1999, era pre-Domenici: secondo i patti, Fondiaria avrebbe dovuto cedere a titolo gratuito al Comune 130 ettari, di cui 80 destinati a parco urbano. Sul terreno rimanente Fondiaria avrebbe potuto realizzare appartamenti, negozi e strutture ricettive. Poi, negli anni, tra inghippi politici e intoppi burocratici, il progetto di urbanizzazione muta. Dentro ci finiscono anche la sede della Regione e della Provincia. Fino all’ipotesi di piazzare proprio lì la “Cittadella viola” voluta dai Della Valle (e sognata dai cittadini).

Al sindaco Domenici l’idea di accollarsi un parco da 80 ettari non è mai piaciuta, perciò il 30 settembre 2008 la giunta cambia idea e lo ufficializza con un emendamento: a Castello sorgerà lo stadio della Fiorentina.

Il primo cittadino in catene
Ma qui interviene la magistratura. A fine novembre 2008 il terreno è sequestrato. La notizia esce sui giornali, così come le immancabili intercettazioni. Si segnalano per attivismo e coordinazione le testate del gruppo Espresso. Il 27 novembre Repubblica Firenze scrive che «il sequestro deve impedire una complessa operazione edilizio-urbanistica inquinata, secondo le accuse, da “vizi e alterazioni indebite”». Le ipotesi dei pm? Corruzione, concussione, violenza privata, appropriazione indebita. In particolare gli inquirenti si concentrano sull’assessore all’Urbanistica Gianni Biagi, che con le sue «illecite condotte» avrebbe portato il Comune all’«asservimento agli interessi del privato», ovvero di Ligresti.

A inizio dicembre l’Espresso ci fa la copertina: “Compagni Spa”. Si parla di giunte Pd e scandali giudiziari. Firenze è il caso che apre il servizio. Il settimanale sguazza fra le intercettazioni del sindaco, neanche indagato, che però è stato “beccato” a dire al telefono che quel parco deve essere «smitizzato» perché «mi fa cagare da sempre». È reato «smitizzare» un parco? Non si sa: è ancora il 5 dicembre 2008 e mancano ben cinque anni alla conclusione del processo; però, nel dubbio, Alberto Statera seppellisce con un fondo su Repubblica l’era Domenici. Scrive che la sua è la «sinistra immobiliare» e che ormai anche nella virtuosa Firenze rossa la politica è solo «sangue e merda».

Domenici si ribella. Si incatena davanti alla sede del gruppo editoriale di Carlo De Benedetti, rivendica con un cartello il diritto alla difesa. Ora, davanti alle telecamere, può finalmente ricordare che «l’idea del parco mi ha sempre visto perplesso ma questa mia perplessità l’ho sempre detta pubblicamente». Nessun accordo segreto né corruzione.

È in questo momento che l’allora sindaco addita per la prima volta un «attacco politico evidente» contro il Pd. Denuncia che poi specificherà a processo nel marzo 2012: «Un gruppo politico-editoriale per le sue scelte ha voluto aprire una campagna di linciaggio mediatico semplicemente perché l’ingegner De Benedetti riteneva che per far svoltare il Pd bisognava decapitare un’intera generazione di gente che proveniva dai Ds, Pds e prima ancora dal Pci».

Comunque, in quei mesi a cavallo tra 2008 e 2009, lo scandalo monta e diventa nazionale. Escono altre intercettazioni, i giornali triturano Domenici. Del resto l’Espresso lo aveva avvertito: le sue parole contro il parco, intercettate e pubblicate nonostante il sindaco non fosse neanche indagato, «testimoniano un male che va oltre la corruzione addebitata ai due assessori in rapporti troppo intimi con Salvatore Ligresti».

Il Pd e le primarie senza storia
Già, perché gli assessori corrotti sono due, secondo la procura (e i giornali). Uno è il già citato Biagi, l’altro è Graziano Cioni, titolare della Sicurezza, noto come lo “sceriffo” di Firenze per via delle famigerate ordinanze anti-lavavetri. Lo stesso Cioni che guarda caso in quei giorni è in piena corsa per la successione a Domenici come leader del Pd locale. Non tralascia di ricordarlo Statera su Repubblica, notando che l’inchiesta sull’area di Castello «sfalda» il partito proprio «alla vigilia delle primarie per la designazione del candidato sindaco».

L’esito del voto è noto: l’indagato Cioni viene censurato – fra gli applausi dei presenti – dall’assemblea cittadina del Pd e si ritira suo malgrado dalla competizione («esco dalle primarie perché mi buttate fuori»). Senza di lui, due mesi dopo, febbraio 2009, il suo diretto competitor vince facile al primo turno: il nuovo candidato sindaco della sinistra è Matteo Renzi.

Curiosamente poi, nel settembre 2011, proprio Renzi testimonia a processo contro l’operato della giunta Domenici: secondo lui «la convenzione tra Comune e Fondiaria-Sai era contra legem» perché prevedeva che per la nuova sede della Provincia a Castello (di cui Renzi all’epoca dei fatti era presidente) «progetto e costruttore fossero indicati dal privato», cioè senza gare pubbliche. In realtà oggi dalle motivazioni con cui la Corte ha demolito il processo si apprende che quella convenzione, stipulata nel 2005, «non conteneva affatto previsioni contra legem», e infatti anche lo stesso Renzi l’aveva sottoscritta con Domenici e con la Regione. Per sfilarsi però, inspiegabilmente, un anno dopo.

Il punto, comunque, secondo la Corte d’assise di Firenze, è che le dichiarazioni di Renzi rientrano in pieno nel campo delle «opinioni» (per altro errate) e dunque per un pm «non possono costituire prova a carico» degli imputati. Stesso discorso per  le «considerazioni di testi e consulenti tecnici», ai quali l’accusa ha fatto ampio ricorso per sostenere le proprie tesi: «Non possono trasformarsi in prove a carico», tanto meno quando sono «inopportunamente e scorrettamente censorie degli ambiti di discrezionalità amministrativa».

Ma non è finita. I giudici fiorentini, mandando assolti gli imputati, rimproverano ai pm anche un certo uso distorto delle intercettazioni. «Le conversazioni telefoniche – si legge nelle motivazioni – devono essere sempre vagliate con cautela estrema»: non si deve credere che «le cose dette in tali occasioni siano sempre la rappresentazione certa della verità solo perché gli interlocutori parlano senza sapere di essere ascoltati». Quante volte, e chissà perché, ragiona la Corte, le persone al telefono mentono, esagerano, diffamano?

Tanto è vero che in dibattimento, dall’esame delle stesse telefonate utilizzate dai magistrati (e dai giornali) per dimostrare l’«asservimento» della giunta fiorentina a Ligresti, i giudici arrivano a un convincimento ben diverso: «L’“attacco” al parco nasce da Domenici» e non dal presunto corrotto assessore Biagi; nasce cioè dal «massimo organo politico della amministrazione comunale, che ha tutto il diritto di guidare le scelte urbanistiche della sua amministrazione». Sottolineano i giudici: «Fare o non fare il Parco nell’area di Castello, fare o non fare lo stadio di calcio (…) era ed è decisione che spetta discrezionalmente soltanto alle Autorità politiche». E il compito dei magistrati non è fare gli opinionisti: «A giudicare le scelte politiche e amministrative delle Amministrazioni locali e centrali restano sempre e soltanto i cittadini, cui appartiene, secondo la Costituzione vigente, la sovranità».

Cinque anni di sigilli, paralisi dello sviluppo urbanistico della città, posti di lavoro evaporati, un partito massacrato e una carriera politica – quella di Cioni, infine «assolto con la formula più ampia» – stroncata sul più bello. Tutto per scoprire che nell’era della trasparenza e dell’informazione totale neanche l’ovvio è più tale.

Tags: carlo de benedettiCorriere della Seradella valleespressofirenzegraziano cionileonardo domenicileonardo pieraccioniLigrestiMatteo Renzipartito democraticoPdprimarierepubblica
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