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La storia di “baby Roe”, figlia della legge sull’aborto in America

Norma McCorvey (“Jane Roe” nella causa Roe v. Wade) non riuscì a liberarsi della sua gravidanza, partorì la sua bambina e la diede in adozione. Per decenni nessuno seppe chi era, finché Shelley Lynn Thornton ha deciso di raccontarsi: «Io non sono quella legge»

Caterina Giojelli
09/10/2021 - 6:32
Società
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Dopo decenni di anonimato Shelley Lynn Thornton, figlia di "Jane Roe", ha rilasciato un'intervista alla Abc
Dopo decenni di anonimato Shelley Lynn Thornton, figlia di “Jane Roe”, ha rilasciato un’intervista alla Abc

«Hanft iniziò a girare intorno al tema di Roe, parlando di gravidanze indesiderate e aborto. Ruth intervenne: “Noi non crediamo nell’aborto”. Hanft si rivolse a Shelley. “Sfortunatamente”, disse, “la tua madre naturale è Jane Roe”».

Tutti conoscono la sentenza Roe v Wade che legalizzò l’aborto in America; pochi conoscono la storia di Jane Roe, pseudonimo di Norma McCorvey, la donna che fece causa al procuratore di Dallas Henry Wade contro le leggi che in Texas le proibivano di abortire. E nessuno ha mai conosciuto quella di Shelley Lynn Thornton, cioè di “baby Roe”, la bambina che non fu mai abortita. Quando la Corte Suprema emise la sua decisione, il 22 gennaio 1973, Norma aveva infatti da tempo partorito e aveva dato la figlia in adozione. Nessuno conosceva la sua storia, fino a pochi giorni fa.

Shelley Lynn Thornton ha rilasciato un’intervista alla Abc il 4 ottobre, dopo decenni trascorsi a mantenere segreta la sua identità. Lo ha fatto dopo essersi raccontata al giornalista e scrittore Joshua Prager, autore di The Family Roe: An American Story, fresco di stampa e di cui l’Atlantic ha pubblicato il mese scorso una lunga ripresa. Shelley non lo ha fatto per dire la sua sull’aborto: nonostante i solleciti della giornalista dell’Abc a schierarsi nel dibattito infuocato in America (sulla legge del Texas e in vista dell’esame alla Corte Suprema del caso del Mississippi, quando i giudici potrebbero capovolgere la Roe v Wade), Shelley ha ribadito che le sue opinioni se le tiene per sé, «non lascerò che nessuna delle due fazioni mi usi». Prima di sapere di essere “baby Roe”, ha spiegato, l’aborto non era un tema che la potesse interrogare: era cresciuta con la certezza «che se un membro della famiglia avesse avuto un bambino di cui non poteva prendersi cura, qualcun altro lo avrebbe preso, occupandosene al posto suo». Proprio come fecero Ruth e Bill adottandola quando era ancora in fasce.

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L’avvocato e la bambina segreta

Era stato il fratello di Bill, anche lui padre adottivo, a presentarli all’avvocato Henry McCluskey. E quando all’inizio di giugno 1970, l’avvocato telefonò con la notizia che una neonata era disponibile, i due la battezzarono Shelley Lynn. Non sapevano chi fosse la madre della bambina, sapevano solo che aveva dato alla luce altre due figlie, anch’esse date in adozione. Non sapevano che era stato McCluskey a presentare Norma agli avvocati che cercavano di intentare la causa contro il divieto di aborto, e nemmeno chi fosse Norma. Due anni e mezzo dopo, quando la Corte Suprema codificò la Roe v Wade, McCluskey morì assassinato e con lui il segreto sull’identità della bambina.

Per anni Shelley crebbe felice, consapevole di essere stata adottata (per Ruth era importante che sapesse di essere stata «scelta») e fantasticando sulla sua madre naturale. Fantasie che divennero interrogativi angosciosi sul suo non essere stata desiderata da chi l’aveva messa al mondo quando anche Bill se ne andò di casa abbandonando la famiglia. Si fidanzò con un ragazzo, anch’esso adottato, sognando una vita stabile e qualcuno che restasse con lei per sempre. Finché, nel 1989, Norma, che aveva svelato la sua vera identità poco dopo la codifica della legge sull’aborto, proclamò ai media che aveva intenzione di ritrovare sua figlia. Non la prima, Melissa, non la seconda, Jennifer. Ma quella figlia che aveva portato a Roe.

Dietro Roe, la fragilissima Norma

Tutto ha avuto inizio in un grembo, «Mettere questa madre contro il suo bambino ha messo gli americani l’uno contro l’altro», dirà Shelley all’Abc. Una madre che forse non ha mai saputo cosa volesse veramente, una «narratrice del tutto inaffidabile», la chiamerà Prager. Norma era una cameriera di Dallas che ebbe relazioni occasionali con uomini e donne, un breve matrimonio a 16 anni, una lunga convivenza piena di tradimenti e liti con una donna, Connie Gonzales, 17 anni più di lei. Non cambiò idea, barricate e versioni solo sull’aborto: soffrì problemi di alcol, droga, abusi, raccontò che sua madre le fece firmare con l’inganno i documenti per l’adozione della prima figlia ma diede subito in adozione la seconda, provò a raccontare di essere stata violentata per abortire la terza, confessò di aver mentito, denunciò una violenza sessuale anche nell’83, ritrattò nell’87. Militò nelle file dei pro-choice, poi in quelle dei pro-life, si convertì al cristianesimo, passò dalla chiesa evangelica a quella cattolica, si dichiarò lesbica poi rifiutò l’omosessualità.

In quella che definì la sua “confessione in punto di morte” – un controverso documentario andato in onda su Fx -, sostenne che il suo attivismo pro-life era una messinscena, «sono stata pagata»; eppure Abby Johnson raccontò di avere ricevuto una sua chiamata poco prima che morisse, diceva, Norma, di avere bisogno di parlare con qualcuno che portasse il peso di «un grande numero». Johnson calcolava di essere stata personalmente colpevole di circa 22.000 aborti quando dirigeva Planned Parenthood, Norma si sentiva responsabile di 50-60 milioni interruzioni di gravidanza. Norma non era una mercenaria, ma era una donna fragile. Ed è sulla fragilità di una donna che è stata costruita la Roe v Wade.

«Sfortunatamente sei la figlia di Jane Roe»

Nel 1989 Norma dichiarò a Today che avrebbe cercato questo figlio messo al mondo 19 anni prima e il National Enquirer si offrì per aiutarla. Per farlo i giornalisti arruolarono Toby Hanft, un’investigatrice privata antiabortista specializzata nel mettere in contatto le madri con i bambini che avevano abbandonato. Si presentò a Shelley, spiegandole che la sua madre naturale la stava cercando. La ragazza piangeva dalla gioia. Hanft le diede appuntamento per spiegale tutto a cena insieme al suo “socio”: non rivelò che si trattasse di un giornalista a caccia di scoop. Racconta Prager:

«Le risposte che Shelley aveva cercato per tutta la vita erano improvvisamente a portata di mano. Ascoltò mentre Hanft iniziava a raccontare ciò che sapeva della sua madre naturale: che viveva in Texas, che era in contatto con la maggiore delle sue tre figlie e che si chiamava Norma McCorvey. Il nome non era familiare a Shelley o Ruth. Sebbene Ruth leggesse i tabloid, si era persa una storia su Norma che era apparsa sulla rivista Star solo poche settimane prima con il titolo “La mamma coinvolta in un caso di aborto desidera ancora il bambino di cui ha cercato di sbarazzarsi”. Hanft iniziò a girare intorno al tema di Roe, parlando di gravidanze indesiderate e aborto. Ruth intervenne: “Noi non crediamo nell’aborto”. Hanft si rivolse a Shelley. “Sfortunatamente”, disse, “la tua madre naturale è Jane Roe”». Così facendo le pose un numero di People. Shelley lo gettò a terra e scappò in lacrime. Quando tornò, i due arruolati dal National Enquirer iniziarono a incalzarla: era a favore della scelta o della vita? «Continuavano a chiedermi da che parte stavo» e alla fine la ragazza disse di non poter pensare ad abortire. Solo allora i due si qualificarono e le spiegarono che volevano scrivere su Norma e Shelley una storia analoga a quella di Roseanne Barr e il figlio che aveva dato in adozione e con cui si era recentemente riunita. Ecco cosa voleva Norma, pensarono Shelley e Ruth, un’uscita pubblica su un tabloid nazionale.

Shelley non abortisce, «non sono Norma»

Quando Shelley li diffidò formalmente dal pubblicare la sua vicenda, all’Enquirer accettarono di censurare il nome ma non la storia, ripetendole che collaborare era meglio, una talpa avrebbe potuto vendere la sua identità, molti giornalisti l’avrebbero trovata. Norma le inviò una lettera confusa negando di voler sfruttare il loro riavvicinamento e di aver dato il consenso alla ricerca del tabloid (che però aveva una dichiarazione firmata in vista della pubblicazione: «Grazie al National Enquirer so chi è mio figlio»). L’articolo uscì, coi virgolettati della ragazza «sono felice di sapere che mia madre naturale è viva e che mi ama, ma non sono davvero pronta a vederla. E non so quando sarò pronta, se mai lo sarò. In un certo senso, non posso perdonarla… ora so che ha cercato di abortirmi».

Nonostante l’anonimato Shelley venne trovata da una produttrice di uno show televisivo. Viveva un incubo quando scoprì, a soli 20 anni, di essere incinta del suo fidanzato. Non desiderava avere un bambino, l’associazione ai pro-life uscita sull’Enquirer l’aveva messa a disagio. Ma non si sentiva nemmeno pro-choice: «Norma era pro-choice, e a Shelley sembrava che abortire non l’avrebbe resa diversa da Norma. Shelley decise che avrebbe avuto il bambino. L’aborto, disse, “non è parte di me”».

Qualche anno dopo Norma tornò alla carica, telefonò a Shelley, voleva venire a trovare il nipotino con la compagna Connie. Racconta Prager che Shelley chiese loro di essere “discrete” di fronte a suo figlio: «”Come spiegherò a un bambino di 3 anni che non solo questa persona è tua nonna, ma bacia un’altra donna?”». Norma le urlò contro, le disse che Shelley avrebbe dovuto ringraziarla per non averla abortita. Le due donne non si incontrarono mai.

La figlia della legge sull’aborto

Shelley ha dato alla luce altre due bambine, non ha mai rivelato chi era per paura di venire usata per abolire o promuovere una legge che divideva il paese e che era stata originata dal suo concepimento. Aveva paura di rivelare il suo segreto ma non riusciva a conviverci. Incontrò Prager, che si era messo sulle sue tracce grazie alle carte abbandonate da Norma nel garage di Connie, e attraverso di lui incontrò le sorellastre Melissa e Jennifer. Quando nel febbraio del 2017 seppe che Norma era stata intubata e stava morendo in un ospedale del Texas Shelley si sentì travolta dal desiderio di far provare a sua madre «qualcosa per chi aveva messo al mondo. Voglio che provi questa gioia, il bene che porta». Ma era troppo tardi.

Prager ha sottolineato che la vicenda di Shelley non racconta «la santità della vita ma la difficoltà di nascere non desiderati». L’intervistatrice dell’Abc non è riuscita a strappare a Shelley nessun endorsement a favore dell’aborto, le ha anche fatto presente che quella croce che portava al collo avrebbe indotto gli spettatori a credere che fosse un messaggio, che stesse cercando di trasmettere le sue convinzioni religiose senza rispondere direttamente alle domande. Al fondo quello che si vuole oggi da Shelley – che ripete «le azioni di Norma non hanno a che fare con me, io ero solo una piccola cosa minuscola su cui hanno prevalso le circostanze», che non perdona la madre ma non ha abortito, che risponde all’aborto parlando di adozione – è la stessa cosa che cercavano da lei i giornalisti dell’Enquirer. Un testimonial, una “figlia di Roe v Wade” che continui a portarne il peso dell’eredità.

Tags: AbortoamericaRoe vs Wade
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