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Unplanned, il film sull’aborto che va oltre la guerra pro life contro pro choice

Pregi (molti) e difetti (pochi) della pellicola in uscita in Italia che racconta la storia di Abby Johnson, direttrice di una clinica di Planned Parenthood diventata antiabortista

Rodolfo Casadei
21/09/2021 - 3:00
Salute e bioetica
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Una scena del film Unplanned
La differenza sta tutta fra vedere o non vedere qualcosa che è in atto, qualcosa che accade in quel momento. Per vederlo bisogna aprire gli occhi, quelli fisici ma anche quelli della mente. Si potrebbe riassumere così la morale di Unplanned, il film su Abby Johnson, la direttrice di una clinica texana della Planned Parenthood che passa dalla parte dei pro-life quando vede coi suoi occhi che l’aborto è l’eliminazione di un bambino e comprende che, diversamente da quanto scrive ipocritamente nel suo statuto, l’organizzazione non cerca di prevenire le gravidanze indesiderate, ma di fatturare sempre di più aumentando costantemente il numero delle interruzioni di gestazione. Trattasi di storia vera e di personaggi reali.

I tentativi di censura

Non fosse per la tragicità dell’argomento, farebbe quasi ridere constatare che il fuoco di sbarramento che critici cinematografici e militanti della causa pro-choice hanno concentrato sul film abbia per oggetto le immagini raccapriccianti e i dettagli cruenti di tutto ciò che riguarda gli aborti e i corpi delle donne su cui viene praticato. Da tempo sui grandi schermi e nei teatri si vede assolutamente di tutto, non c’è più nulla di abbastanza sacro, riservato, inaccessibile, turpe, disgustoso, osceno che non possa essere rappresentato.
Il valore estetico e sociale di qualsiasi rappresentazione è considerato superiore a ogni tabù. Con la curiosa eccezione dell’aborto, a quanto pare. Ma soprattutto fa cadere le braccia l’ostilità pregiudiziale che impedisce di cogliere l’originalità del film e di stabilire obiettivamente pregi, difetti e problematicità.

La “conversione” di Abby

Ci sono almeno due contenuti sorprendenti che dovrebbero balzare agli occhi perché scavalcano la barriera delle contrapposte visioni partigiane. Il primo riguarda proprio il vedere, il cambiamento che determina il vedere qualcosa che fino a quel momento era rimasto invisibile. A “convertire” Abby Johnson non è il sangue che cola dalle gambe delle ragazze, i corpi smembrati dei feti, gli sguardi smarriti e depressi delle giovanissime sia al momento di entrare che nel momento di uscire dalla clinica. Lei stessa ha vissuto l’esperienza di due aborti, e il secondo, quello indotto chimicamente e vissuto nella solitudine di casa, è stato un’esperienza dolorosissima e truculenta, giorni di un limbo insanguinato nell’angoscia della propria morte incombente.
Abby è rimasta impassibile quando la direttrice della clinica l’ha condotta nella cella dove sono conservati i feti fatti a pezzetti, li ha scrutati come se guardasse le ali delle farfalle, e con questo si è meritata il posto che l’altra le lascia. Non è una persona che si fa impressionare dal sangue e dai cadaveri. Tanto meno la mettono in crisi il silenzioso dissenso di genitori e secondo marito, orripilati della sua professione ma mai ostili, o i manifestanti antiaborto che inveiscono o che pregano pacificamente lungo la recinzione della clinica, compresi quelli che cercano il dialogo.
Ha certezze benpensanti. Che vanno in crisi una prima volta quando Planned Parenthood batte cassa: altro che aborto raro e sicuro, soluzione estrema quando la contraccezione fallisce; quelli di Houston hanno bisogno di aumentare la produttività per tenere in piedi la baracca, e questo si fa incrementando il numero delle interruzioni di gravidanza, puntando sugli aborti chimicamente indotti perché garantiscono un margine di guadagno maggiore. E Planned Parenthood, che diffonde contraccezione e pratica aborti, funziona letteralmente come i fast-food: non sono gli hamburger (leggi: i contraccettivi) a generare i profitti, ma le patatine fritte e le bevande gasate. Perciò lasciate da parte gli ideali, se volete continuare ad avere una busta paga…

Fanatici (e in buona fede) da entrambe le parti

Dopo che si sono aperti gli occhi della mente, è il turno di quelli del corpo: Abby ha visto tante volte i prodotti di un aborto, ma non ha mai preso parte all’azione. Succede che venga chiamata in sala operatoria, e che sullo schermo veda l’immagine di un feto di 13 settimane, testa e corpo formati, che dà l’idea di cercare di sfuggire disperatamente al risucchio della morte. Invano. È la rivelazione che ribalta la sua visione delle cose. E avranno un bel dire tutti quelli che sostengono che a quel momento della gestazione non c’è percezione del dolore, che la fuga del feto non significa nulla: per Abby quel brevissimo video è il film che decide la sua vita. Tutto cambia prospettiva nel momento in cui vedi la cosa non dopo che è accaduta, ma proprio mentre accade.
L’altro contenuto sorprendente è il ritratto del mondo in cui si muovono pro life e pro choice. Chi si aspetta la rappresentazione di uno scontro tipo crociata o tipo rivoluzione russa resta deluso: i fanatici ci sono, ma appartengono alle frange estreme delle alte dirigenti della catena di montaggio degli aborti, intransigenti e disincantate, e degli antiabortisti  bisognosi di compensazioni psicologiche che trovano nell’aizzare con grida e insulti il senso di colpa nel personale della clinica e nelle donne che vi entrano.
La grande maggioranza delle persone raffigurate nel dramma, abortisti e antiabortisti, pro life che pregano e parlano ai cancelli e pro choice che ricevono le donne, le registrano e le accompagnano in sala operatoria, appartengono allo stesso mondo di una apparente comune decenza, il mondo di chi si impegna con la realtà assumendosi responsabilità. Alla radicale contrapposizione delle opzioni corrisponde l’evidente buona fede degli uni e degli altri; l’avversario non è mai spogliato della sua umanità, il peccatore non è mai identificato col suo peccato. Abby e Shawn, il giovane leader della Coalition for Life, si relazionano con mansuetudine anche prima della “conversione” di Abby. La quale è sposata in seconde nozze con Doug, antiabortista convinto che in lei non vede il mostro che annichilisce bambini in germe, ma l’amabile donna a cui non può rinunciare.

Il problema di Unplanned

Il problema drammaturgico di Unplanned sta nell’ultimo quarto di film. I primi tre quarti sono una storia crudele e credibile, come credibili sono i protagonisti anche quando non c’è il tempo per l’approfondimento psicologico. L’ultimo quarto costituisce la componente militante, pedagogica, predicatoria dell’operazione – con qualche squarcio brillante memorabile, come quando l’avvocato che difende Abby dalla querela di Planned Parenthood replica alle sue proteste per le ingiustizie del procedimento processuale con una battuta: «Giusto è un vestito o un paio di scarpe; la giustizia è un’altra cosa».
Niente di male in sé – quanti film militanti pluripremiati abbiamo visto negli ultimi cinquant’anni? Se non che la discrasia si nota, e che la scelta dimezza la platea dei potenziali spettatori. Ma questo probabilmente è voluto. La critica secondo cui il film predica ai già convertiti ha senso per quanto riguarda la parte finale del film, ma non coglie il segno: Unplanned si rivolge evidentemente a un pubblico di simpatizzanti della causa antiabortista convinti ma passivi, al fine di renderli attivi e impegnati. E gli argomenti sono concentrati nell’ultima parte. Qui si spiega che Planned Parenthood è un’organizzazione tentacolare finanziata da George Soros, Bill Gates e Warren Buffett, che i gruppi di preghiera pro life fuori dalle cliniche sono combattuti perché è dimostrato che dove si svolgono regolarmente diminuisce il numero delle donne che vi si recano ad abortire, che l’organizzazione creata da Abby Johnson dopo che si è dimessa è riuscita ad aiutare 500 addetti ad abbandonare l’industria dell’aborto.

L’uomo dietro alla produzione

C’è anche il tempo per vedere un  caterpillar che abbatte l’insegna della clinica di Planned Parenthood nella cittadina di Bryan. Alla guida del mezzo c’è, attore non protagonista, Mike Lindell, l’uomo che ha reso possibile la produzione del film (in Italia distribuito dalla Dominus Production) mettendo sul tavolo i 2 milioni di dollari che mancavano per poter realizzare il progetto. Questo fatto è diventato un argomento per chi voleva denigrare il film, perché l’imprenditore Lindell è noto come personaggio sopra le righe, adepto di varie teorie cospiratorie. E qui il mondo pro choice batte un altro record di ipocrisia: le major cinematografiche si rifiutano di finanziare film come questo, quindi se li vuoi realizzare devi  rivolgerti a personalità discusse; dopodiché sarai denigrato perché hai coinvolto questo genere di persone. Ipocrisia pari solo a quella di chi crede che Planned Parenthood pratichi aborti solamente come extrema ratio.
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Tags: AbortoCinemaplanned parenthoodpro choicepro lifeStati Unitiunplanned
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