
La scommessa di Jonathan sulla benzina per un miracolo nigeriano
Se in Italia il prezzo dei carburanti è aumentato del 20 per cento nel giro di un anno, in Nigeria è addirittura più che raddoppiato nel giro di una notte, fra il 31 dicembre scorso e il 1° gennaio di quest’anno. Nessuno dunque si stupisce che da tre giorni il paese sia bloccato da uno sciopero generale che minaccia di estendersi agli impianti di estrazione del petrolio, prima risorsa del paese. C’è però una differenza di fondo fra il costo della benzina alla pompa in Italia e lo stesso in Nigeria: da noi il 60 per cento del prezzo è rappresentato da tasse e accise, da loro il prezzo era sussidiato per il 53 per cento dallo Stato.
Fino a qualche giorno fa a Lagos un litro di benzina costava 65 naire (cioè 30 centesimi di euro) nelle stazioni di servizio e 100 (cioè 47 centesimi di euro) al mercato nero, molto florido perché spesso le scorte ufficiali si esauriscono e la penuria è ricorrente; dall’inizio dell’anno si pagano 140 naire (cioè 66 centesimi di euro) presso i distributori ufficiali e 200 (cioè 95 centesimi di euro) per la benzina di contrabbando. Peccato non essere nigeriani, allora? Mica tanto. A parte le violenze a sfondo religioso e terroristico che stanno seminando morte e distruzione nel centro e nel nord del paese (grande quattro volte l’Italia e abitato da 155 milioni di abitanti circa), non si può certo dire che il carburante sussidiato abbia fatto bene all’economia del paese e al livello di vita dei suoi abitanti. Si calcola che negli ultimi 50 anni le casse dello Stato abbiano introitato qualcosa come 6.000 miliardi di dollari di rendita petrolifera, e tuttavia il 70 per cento della popolazione vive in condizioni di povertà assoluta, con una speranza di vita alla nascita di appena 47,5 anni (contro gli 81,7 dell’Italia). Colpa della corruzione e della cattiva politica prima che dei sussidi al prezzo del carburante, si dirà. Sì, ma il prezzo politico della benzina è parte integrante del complesso di corruzione e cattiva politica che condanna la Nigeria – come tanti altri paesi africani – al sottosviluppo.
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L’ammontare totale dei sussidi al carburante è pari a 8 miliardi di dollari all’anno, cioè al 4 per cento dell’intero Pil nigeriano. È come se il governo italiano non solo rinunciasse a tassare la benzina, ma addirittura spendesse circa 70 miliardi di euro all’anno per aiutare i consumatori ad acquistarla a buon mercato: una cifra pari a due “manovre salvaItalia” più 10 miliardi di spiccioli. Perché la Nigeria spende tutti quei soldi in sovvenzioni al consumo di carburante anziché in scuole, ospedali, strade, sanità di base, formazione professionale, ecc.? Perché alle élites di potere neopatrimonialiste conviene così: il diesel a buon mercato permette loro di mantenere flotte di auto di grossa cilindrata e di ottenere l’elettricità di cui hanno bisogno grazie a grossi generatori, mentre il popolo resta al buio a causa delle continue interruzioni dell’erogazione attraverso la rete ordinaria. Piccole e grandi organizzazioni del contrabbando e del mercato nero si arricchiscono esportando di nascosto il carburante nei paesi confinanti o vendendolo all’interno illegalmente nei periodi di penuria dovuti a problemi nell’importazione. Pur essendo il quinto produttore mondiale, infatti, la Nigeria dispone solo di tre raffinerie che non lavorano mai a pieno regime a causa di guasti e cattiva manutenzione. Ai ricchi nigeriani conviene di più importare dall’estero benzina già raffinata, che godrà del sussidio statale quando sarà venduta al dettaglio, piuttosto che investire in impianti adeguati di raffinazione.
La gestione del petrolio in Nigeria si inquadra in pieno nello schema della “maledizione delle materie prime”: i paesi poveri non industrializzati che dispongono di grandi risorse minerarie sembrano destinati a fare peggio, in termini di sviluppo economico e democratizzazione politica, dei paesi poveri che si dedicano alle manifatture da esportazione non disponendo di materie prime esportabili. Nei primi, infatti, chi controlla lo Stato non ha bisogno delle tasse dei cittadini, potendo arricchirsi semplicemente sfruttando la rendita delle materie prime che esporta; ai cittadini nulla viene dato, ma nemmeno nulla viene chiesto, e questo fa sì che non si generi un’opposizione politica attiva e organizzata, motivata dalla necessità di chiedere conto del modo in cui sono gestite le imposte pagate. Nei paesi dove lo Stato attua l’imposizione fiscale sui redditi e sulle buste paga di chi lavora nel settore manifatturiero scatta il meccanismo politico che sta alla base della rivoluzione americana: “No taxation without representation”. E le basi del controllo democratico sono gettate.
La Nigeria, almeno fino alla coraggiosa decisione di questa seconda presidenza di Goodluck Jonathan, è rientrata totalmente in questo schema, che prevede anche l’elargizione di sussidi ai consumi alimentari e di energia per tenere buone le masse. Se il governo di Jonathan terrà ferma la sua decisione di sopprimere i sussidi, le proteste odierne si trasformeranno nel tempo in organizzazioni, sindacati e partiti impegnati nel controllo politico delle risorse risparmiate dallo Stato con l’abolizione dei sussidi. Le promesse del governo di investire gli 8 miliardi di dollari risparmiati in spesa sociale e investimenti per un solido sviluppo economico saranno oggetto di attenta verifica. La democrazia e lo sviluppo economico sano avranno finalmente una chance. Non è un sogno, ma è senz’altro una coraggiosa scommessa.
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