La ritirata russa

Di Rodolfo Casadei
15 Dicembre 2020
Dalla Bielorussia al Nagorno Karabakh, Mosca mette nel cassetto i sogni di un ritorno alla grandezza sovietica. Così crisi economica, Covid e tecnologia militare obsoleta limitano l’azione di Putin
Vladimir Putin

Articolo tratto dal numero di dicembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

In Moldavia la candidata europeista Maia Sandu vince le elezioni presidenziali sconfiggendo il presidente uscente filorusso Igor Dodon, e Vladimir Putin si affretta a inviare un telegramma di congratulazioni alla vincitrice prima ancora che il risultato sia ufficializzato.

Nel Caucaso Mosca media un armistizio fra armeni e azeri che si sono sanguinosamente combattuti per 44 giorni nella regione del Nagorno Karabakh e nel contesto delle misure decise per il mantenimento della tregua accetta l’invio di truppe turche che stazioneranno sul territorio dell’Azerbaigian, a poche decine di chilometri dal confine col Daghestan russo, e la costruzione di una strada che collegherà l’enclave azera del Nakhichevan al resto dell’Azerbaigian destinata a diventare un asse di penetrazione degli interessi turchi nella regione.

In Kirghizistan, due settimane dopo la sua visita a Mosca nel corso della quale Putin gli aveva detto «da parte nostra, faremo ogni cosa per sostenere lei come come capo dello Stato», il presidente Sooronbai Jeenbekov si dimette sull’onda delle proteste popolari che attraversano tutto il paese all’indomani dei risultati delle elezioni parlamentari considerati fraudolenti; nessun intervento da parte di Mosca, che nello stato ex sovietico ha una base militare per la quale paga 4,8 milioni di dollari di affitto, dopo che i risultati che premiavano i partiti sostenitori del presidente dimissionario vengono annullati; solo una dichiarazione di Putin: «Speriamo che tutto si svolga pacificamente».

Poco più di questo la Russia ha fatto per Aleksandr Lukashenko, alleato di vecchia data (nonostante negli ultimi anni abbia riservato qualche dispiacere a Mosca) il cui regime dal mese di agosto è oggetto di proteste popolari che denunciano decisivi brogli nelle elezioni presidenziali che lo hanno rieletto per un sesto mandato alla testa della Bielorussia: Putin si è limitato a ricevere il capo di Stato bielorusso a Sochi e a concordare un prestito da 1,5 miliardi di dollari, ignorando le sue richieste di aiuto militare; nessuna operazione in stile Donbass è alle porte in Bielorussia.

Cautela, equidistanza, attendismo, quasi rassegnazione alla perdita di influenza nell’asserita sfera d’influenza russa rappresentata dagli Stati nati dallo scioglimento dell’Unione Sovietica nel 1991. Sembra passato un secolo dal sostegno militare ai ribelli filorussi in Ucraina, dall’annessione della Crimea, dall’intervento militare in Abkhazia a fianco dei separatisti contro la Georgia del presidente Mikhail Saakashvili, dalle pressioni sull’Ucraina (fallite) e sull’Armenia (riuscite) perché abbandonassero il partenariato con l’Unione Europea e si impegnassero nell’Unione economica euroasiatica (Uee), dall’intervento militare in Siria che ha salvato il regime del presidente Assad dal tracollo di fronte alle forze ribelli armate e finanziate da paesi arabi, Occidente e Turchia; tutte vicende cronologicamente collocate fra il 2008 e il 2015. La prudenza e lo spirito di adattamento alle nuove circostanze geopolitiche (sopra elencate) che implicano il ridimensionamento di qualunque aspirazione neo-imperiale che la Russia di Putin possa aver nutrito hanno molte motivazioni, che si possono riassumere sotto tre diciture: crisi economica, conseguenze politiche interne del Covid, sviluppi delle tecnologie militari.

Declino e stagnazione

Il capitolo più corposo delle cause del ridimensionamento delle ambizioni geopolitiche russe è senz’altro quello economico. L’economia russa è destinata, come quelle di quasi tutti i paesi del mondo, a registrare dati molto negativi per il 2020 a causa del rallentamento delle attività produttive e degli scambi dovuto alla pandemia. C’è però una differenza in negativo rispetto agli altri paesi: mentre la maggioranza di questi ultimi arriva da performance economiche molto positive, in alcuni casi ininterrotte dal 2009, la Russia ha conosciuto prima un declino e poi una stagnazione che durano dal 2013. In quell’anno sia il valore assoluto che quello pro capite del prodotto interno lordo (Pil) hanno conosciuto il loro massimo storico: 2.292 miliardi di dollari di Pil in valore assoluto, ovvero 15.975 dollari pro capite.

Quando era salito al potere nel 1999, Putin aveva trovato un Pil 11 volte più piccolo e un reddito pro capite di appena 1.331 dollari. Questi risultati economici e il ricongiungimento della Crimea alla Russia nel 2014 hanno spinto il consenso popolare a Putin ai massimi storici. Alla fine del 2019 la situazione appare degradata: il Pil è sceso a 1.700 miliardi di dollari, cioè meno di quello italiano (che nel 2013 la Russia aveva per la prima volta nella storia superato) che nello stesso anno è stato pari a circa 2 mila miliardi di dollari; il reddito pro capite dei russi è pure sceso a 11.585 dollari.

La crisi della “verticale del potere”

Le cause di queste flessioni sono due: la prima è la caduta dei corsi delle materie prime energetiche, cioè petrolio, metano e carbone, principali fonti della ricchezza russa grazie all’export. Il prezzo del petrolio è sceso dai 98 dollari al barile di fine 2013 ai 61 dollari di fine 2019. E la discesa è continuata per tutto il 2020, arrivando agli attuali 42 dollari.

L’altro fattore che ha indebolito la performance economica negli ultimi anni sono le sanzioni commerciali europee ed americane imposte dopo l’annessione della Crimea alla Russia. L’interscambio fra la Russia e i paesi dell’Unione Europea, che nel 2012 era pari a 322 miliardi di euro, alla fine del 2019 era sceso a a 232 miliardi. Stessa storia per gli investimenti esteri: nel 2013 erano arrivati a 69,2 miliardi di dollari, alla fine del 2019 si erano più che dimezzati a 31,8 miliardi.

Le prospettive di ripresa sono problematiche, quando si consideri che l’Unione Europea, che attualmente importa dalla Russia il 40 per cento del gas e il 27 per cento del petrolio che consuma, ha varato un ambizioso Green Deal che prevede la dismissione delle fonti fossili di energia nei prossimi anni. Al parziale isolamento economico iniziato nel 2014 la Russia ha cercato di porre rimedio con la creazione dell’Uee, formata da Russia, Bielorussia, Kazakistan, Armenia e Kirghizistan, ma i risultati sono stati deludenti: l’interscambio totale fra i partner non arriva a 60 miliardi di dollari, e il Kazakistan, il paese dell’Unione economicamente più importante dopo la Russia, mostra molto più interesse per la Belt and Road Initiative cinese che per l’asfittica Uee.

Il secondo fattore di squilibrio che sta conducendo a un’introversione della politica del governo russo sta nella ripresa delle tensioni regionaliste anticentraliste sul territorio della Federazione, fra le quali il caso più noto è rappresentato dalle proteste popolari a Khabarovsk del luglio-agosto scorsi in seguito all’arresto del governatore Sergei Furgal, uno dei pochi governatori regionali non affiliati a Russia Unita, il partito del presidente. Nelle elezioni di settembre in 18 regioni i fedeli di Putin hanno riconquistato tutti e 15 i governatorati che già detenevano, ma nei mesi precedenti avevano perso i 2 oblast di Vladimir e di Chakassia.

Scrive Stefano Caprio nel suo Lo zar di vetro. La Russia di Putin, appena arrivato in libreria:

«La pandemia ha mostrato i limiti della forza dello Stato centrale, e le tante inefficienze del sistema. Sono molto cresciuti i campi d’azione delle regioni, e difficilmente potranno essere nuovamente ricondotti alla passività del ventennio trascorso; è avvenuta una certa decentralizzazione di fatto, che sembra essere irresistibile» (p. 120).

La famosa “verticale del potere” che è una delle realizzazioni dell’era Putin è in discussione.

Cosa insegna il conflitto con gli azeri

Il terzo fattore che probabilmente induce l’establishment russo alla prudenza è quello militare. Il significativo successo bellico azero nell’interminabile guerra per il Nagorno Karabakh è dovuto anzitutto alla conquistata superiorità nei cieli grazie all’uso di una flotta di droni comprendente i Bayraktar TB2 turchi e gli Orbiter-1K e gli Harop israeliani. Questi hanno direttamente bombardato o inviato alle artiglierie e ai sistemi missilistici azeri le coordinate di carri armati, artiglierie e difese aeree armene, coi risultati che, anche se non si vuole credere ai numeri della propaganda di Baku, sono sotto gli occhi di tutti gli osservatori: i maggiori sistemi di armamento armeni sono stati messi in gran parte fuori combattimento e gli uomini sul campo sono rimasti senza difesa; in 44 giorni di combattimenti sono caduti circa 2.500 soldati armeni.

Ad allarmare la Russia è il fatto che le difese antiaeree e antimissilistiche armene messe rapidamente fuori combattimento erano tutte di produzione russa o prima ancora sovietica. Sul quotidiano Vedomosti è uscito un articolo dai toni estremamente pessimistici:

«A gennaio e febbraio di quest’anno, i droni turchi hanno svolto un ruolo chiave nel respingere l’offensiva dell’esercito siriano a Idlib, per poi ottenere risultati operativi in Libia, dove il generale Khalifa Haftar, che era passato da una vittoria all’altra, è stato respinto da Tripoli. (…) Ora abbiamo assistito all’uso dei droni nella guerra fra due eserciti regolari. Gli armeni non avevano un sistema di difesa aerea, ma solo alcuni dei suoi elementi. Tra questi ultimi c’erano anche modelli abbastanza moderni, che tuttavia non potevano resistere alla superiorità sistemica del nemico. (…) L’esercito ucraino, anche se in piccole quantità, dispone già di sistemi d’arma che i russi non hanno. Questi sono sistemi missilistici anticarro di terza generazione e droni kamikaze. E presto arriveranno i droni da ricognizione d’urto Bayraktar TB2 ordinati in Turchia».

Mosca si rende conto che l’apparizione di droni su teatri di guerra che vanno dal Donbass all’Abkhazia può mettere in difficoltà le sue forze armate.

Per tutte queste ragioni oggi la Russia appare più impegnata a rafforzare il fronte interno – economico e sociale – che quello esterno e di frontiera – geopolitico e militare. Per riuscire nel suo intento dispone di due armi: un Fondo sovrano di investimento del valore di 177 miliardi di dollari per sostenere la spesa sociale e riserve di valuta estera per 594 miliardi di dollari per affrontare il dopo-Covid. Dall’uso di queste risorse dipende il futuro del putinismo, mentre le ambizioni di un ritorno alla grandezza politico-militare dell’epoca sovietica appaiono destinate all’archivio.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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