Tentar (un giudizio) non nuoce

La rabbia e la parola: cosa sta succedendo ai nostri giovani?

Di Raffaele Cattaneo
30 Novembre 2024
I fatti accaduti alla Statale e a Corvetto ci interrogano e ci chiedono una responsabilità. «Il fallimento della parola è la base dello scatenarsi della violenza»
(foto Ansa)

Cosa sta accadendo ai nostri giovani? È una domanda che non possiamo eludere dopo episodi di violenza, di tipo e natura diversa, ma sempre più abituali. Solo restando alla cronaca degli ultimi giorni, passiamo dalla rabbia collettiva esplosa al Corvetto dopo la morte di Ramy avvenuta a seguito di un inseguimento dei carabinieri, all’assalto dei collettivi di sinistra (“Cambiare Rotta” insieme a Udu e Link) ad un convegno dell’associazione studentesca Obiettivo Studenti, dal titolo: “Accogliere la vita. Storie di libere scelte”, all’Università Statale che ha impedito lo svolgimento del convegno stesso perché portatore di idee diverse da quelle degli aggressori.

Senza contare i fatti di cronaca quotidiani che oramai ci sembrano addirittura più ordinari, ma che rappresentano la spia di un malessere ancora più profondo. Il bambino di dieci anni che ha aggredito un tredicenne per un pallone a coltellate, piuttosto che gli atti di femminicidio e violenza sessuale, spesso perpetuati da giovani e giovanissimi.

Un arretramento generale

Non possiamo fermarci ad un’analisi superficiale. Questi fatti interrogano, certo sulle cause, ma anche sulle possibili conseguenze di un clima sociale in cui, a diversi livelli, e per le ragioni più disparate, sembrano tutte rispondere ad un comun denominatore: la rinuncia alla parola come elemento di mediazione in favore di una rabbia che sa esprimersi solo attraverso la violenza. Questo è un segno di profonda regressione e, se non si può ignorare che i giovani protagonisti di questi fatti hanno attraversato anni difficili, segnati da un’esperienza unica come quella del lockdown, questo non è sufficiente per spiegare quanto sta avvenendo.

È come se fosse in corso un arretramento generale che rende sempre meno presente e reale quello che la storia dell’umanità ha insegnato, ossia che lo strumento per regolare i conflitti con una forma “diversa dalla spada”, cioè dalla violenza, è proprio la parola. La capacità di argomentare le proprie ragioni e di fermarsi di fronte alle ragioni altrui.

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Reazione violenta e istintiva

Per questo è così grave l’episodio avvenuto all’università Statale perché impedire l’esercizio del diritto di parola a chi è dissonante rispetto ai propri pensieri, usare la violenza per evitare l’apertura di un confronto e di un dibattito ostacola all’origine la relazione tra gli uomini. Per certi aspetti, io ritengo ancora più grave un episodio di questo genere rispetto ad un episodio di cronaca che si concluda con un limitato fatto di sangue. Perché questo può forse essere giustificato da un eccesso di reattività, dietro l’altro appare un’idea, che non è frutto di una reazione istintiva, ma di un pensiero, di una posizione culturale.

Così come non può non interrogare quanto è avvenuto al Corvetto in questi giorni. Lasciamo perdere le derive sociologiche sulle rabbie delle periferie; è però significativo che sia stato più facile per questi ragazzi, che volevano esprimere la loro protesta e un diverso racconto di come fossero andate realmente le cose, ritrovarsi in piazza per dare vita a una forma di protesta violenta, piuttosto che affidarsi alle istituzioni, o esprimere le proprie ragioni attraverso gli strumenti della comunicazione.

Lo striscione esposto fuori dall'aula in cui si è svolto l'incontro "Accogliere la vita", Università Statale, Milano, 26 novembre 2024 (foto Tempi)
Lo striscione esposto fuori dall’aula in cui si è svolto l’incontro “Accogliere la vita”, Università Statale, Milano, 26 novembre 2024 (foto Tempi)

Conta sino a cento

Per loro, invece, è stato naturale e immediato esprimere la propria rabbia attraverso la violenza. Come se la mediazione della parola, attraverso i media e le istituzioni, semplicemente non potesse esistere. «Il fallimento della parola – sottolineava Pietro Barcellona – è la base dello scatenarsi della violenza. Nell’esperienza analitica la parola trattiene, trasforma, contiene la “scarica” delle pulsioni. Chi non riesce più a esprimere le proprie angosce, è inevitabile che scarichi nel comportamento la propria carica di aggressività distruttiva». E ancora: «Dal destino della parola dipende la vita del mondo. Se la parola perde la sua dimensione simbolica, la sua potenza evocativa che ne oltrepassa i confini, e allo stesso tempo, mantiene le relazioni tra interno ed esterno, il mondo decade a un insieme di segni e informazioni computabili secondo un calcolo di corrispondenze univoche».

Questo che sembra palesarsi mi sembra l’aspetto più critico, perché figlio di una carenza educativa, ma sicuramente anche di un’abitudine: affrontare tutta la realtà in modo reattivo, senza la capacità di fermarsi a riflettere. Qualche tempo fa, una canzone contro la mafia ripeteva: «Fermati e conta sino a cento» per darti lo spazio di pensare. Oggi sembra impossibile soffermarsi a contare, neppure sino a tre!, ma lo spazio per pensare è più urgente che mai e su questo noi adulti dobbiamo esercitare la nostra responsabilità. Dobbiamo mettere di fronte ai nostri giovani la consapevolezza che un mondo che non pensa, non usa la parola, e non riesce a vedere i conflitti, è il combustile esplosivo della violenza e della guerra come levatrici della storia.

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