Tutto ciò che è politico presuppone il pubblico, ma non tutto ciò che è pubblico è anche politico. Questo breve compendio, riassuntivo del pensiero politico di Hannah Arendt, assume significati opposti a seconda di quale venga ritenuta essere la causa del possibile divorzio tra pubblico e politico. In che senso il pluralismo (il “pubblico” nel linguaggio arendtiano) può non essere “politico”?
Jürgen Habermas sostiene, nel suo volume Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia (Laterza, trad. it. di L. Ceppa, p. 318, euro 28), un cui ampio estratto è apparso su Repubblica il 27 marzo, che a poter (e a dover) essere riabilitato nella sfera politica non è solo quello che Paul Ricoeur avrebbe definito il “pluralismo cattivo” (l’accettazione delle diverse identità sulla base della neutralizzazione delle loro specificità), ma anche quello che il filosofo francese avrebbe definito “pluralismo buono”: il tentativo di far convivere identità diverse senza annullarle.
Secondo Habermas, infatti, è la stessa «neutralità ideologica dello stato» a non proibire «di ammettere contenuti religiosi nella sfera pubblica», ma proprio sul modo di intendere la neutralità ideologica dello Stato passa la differenza tra Ricoeur e Habermas. Per Ricoeur, essa riesce a salvaguardare il pluralismo buono solo a patto di reggersi su una concezione di persona fondata nella tradizione occidentale e cristiana; mentre, per Habermas, riesce a farlo solo a partire dal presupposto esattamente contrario, mettendo cioè tra parentesi (come avrebbe detto John Rawls) quel fondamento: «prima di affrontare il nucleo filosofico», scrive il filosofo francofortese, «lasciatemi disegnare più chiaramente il punto di partenza da tutti accettato: il principio di separazione della chiesa dallo stato».
Si tratta di una differenza non di poco conto, perché si può anche riconoscere, come in parte sta facendo Habermas almeno dal 2009, che la tradizione occidentale e cristiana sia il fondamento dei diritti umani, e continuare, ciononostante, a ritenere che tale riferimento fondativo “condanni” i diritti umani all’astrattezza e/o alla non universalità: l’astrattezza sarebbe conseguenza della precisa visione metafisica che li anima; la non universalità sarebbe, viceversa, conseguenza del loro carattere storico; ma astrattezza e non universalità conviverebbero nel cristianesimo, dal momento che la “pretesa” della tradizione cristiana è proprio quella di veicolare una visione metafisica dell’uomo all’interno di un annuncio storicamente situato nel tempo.
Difficilmente si potrebbe dare torto ad Habermas nel ritenere che l’unico modo, oggi praticabile, per sconfiggere il laicismo anti-identitario sia quello di affidarsi a un neutralismo statale che riesce a vincere tale battaglia proprio in quanto non si lascia “contaminare” da nessuna delle diverse identità che è chiamato a far convivere all’interno di «un beninteso multiculturalismo»: e ciò anche qualora tale neutralismo avesse (e di fatto ha) molto a che spartire con una di quelle tradizioni (il cristianesimo).
Ma la domanda legittima che rimane aperta è se (e se sì fino a che punto) il motivo del primato del neutralismo sia il fatto che, in nome del doppio presupposto antimetafisico e anticristiano, l’affermazione di una verità assoluta nella storia sia sinonimo di intolleranza o, con parole diverse, di quella che Habermas chiama «la versione radicale del multiculturalismo»: una sorta di rinserramento ideologico di tipo contestualistico, all’interno del quale «le varie culture si presentano come universi semanticamente chiusi, corredate da criteri di razionalità/verità tra loro imparagonabili».
Perché, in altre parole, il fatto che il cristianesimo, nel momento in cui serve da collante di unità per la convivenza civile, si presenta come la trasposizione sul piano giuridico di una dottrina totalizzante del bene umano (avente cioè una pretesa salvifica nei confronti dell’uomo), deve diventare motivo sufficiente per scartare a priori la possibilità di compiere una verifica su questo tipo di scommessa?
Non si sottrae a questi interrogativi, ormai da alcuni decenni, il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre: la verità si rende disponibile in una comunità umana e non può essere sempre sinonimo di intolleranza, in quanto uno dei modi attraverso cui avviene tale disponibilità è quello “narrativo”. Qui però si aprirebbe un’altra (interessante) puntata.