La guerra, la pace, il compito dell’Europa e quello della Chiesa. Parla Baturi

Di Pietro Piccinini
16 Aprile 2025
Il conflitto russo-ucraino, la malattia del Papa, il senso dell’8x1000, le scuole paritarie e la battaglia sul fine vita. Il segretario della Cei non si tira indietro su niente. Nemmeno sul rapporto tra Vaticano e Cl
Il segretario generale della Cei monsignor Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari, con papa Francesco in Vaticano nel 2022 (foto Ansa)
Il segretario generale della Cei monsignor Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari, con papa Francesco in Vaticano nel 2022 (foto Ansa)

Monsignor Giuseppe Baturi, siciliano di Catania, arcivescovo metropolita di Cagliari e dal 2022 segretario generale della Cei, all’indomani della chiusura della sessione primaverile del Consiglio permanente della Conferenza episcopale ha accettato di rispondere alle domande di Tempi su tutti i “fronti caldi” dell’attualità in cui la Chiesa è coinvolta.

Eccellenza, il cardinale Matteo Zuppi, aprendo i lavori del “parlamentino” dei vescovi il 10 marzo, ha ribadito che per la Chiesa la ricerca della pace è la sola posizione ragionevole in un mondo «immerso nella tragedia della guerra». Ma con quali ragioni si invoca il dialogo quando non c’è giustizia? Non è una resa davanti al male? È la domanda di tanti, specialmente a proposito della guerra in Ucraina.

Il cardinale Zuppi ha ripreso una costante del pensiero della Chiesa a favore della pace. Lei chiede “ragioni”: ebbene, c’è un passaggio della Pacem in terris di Giovanni XXIII, ripreso nel 2020 da papa Francesco nel primo Incontro “Mediterraneo frontiera di pace”, promosso dalla Cei a Bari, dove si dice che «la guerra, che orienta le risorse all’acquisto di armi e allo sforzo militare, distogliendole dalle funzioni vitali di una società, quali il sostegno alle famiglie, alla sanità e all’istruzione, è contraria alla ragione». Dobbiamo recuperare un atteggiamento della ragione capace di prospettiva. Contraria alla ragione è l’idea che la pace si possa costruire con il riarmo, con la retorica del nemico, rinunciando a tutte le opzioni di dialogo multilaterale. La Chiesa, immersa in questo mondo, è consapevole di quanto diceva Giovanni XXIII, ossia che la pace ha come pilastri la verità, la giustizia, la libertà e l’amore solidale che giunge – aggiunse Giovanni Paolo II a proposito della guerra in Bosnia – al perdono. Senza questi pilastri è difficile costruire la pace. Tutto questo può sembrare irragionevole, ma se invece fosse la vera strada? Non voglio essere provocatorio: è chiaro che la pace ha bisogno di giustizia, ma la guerra è giusta per chi muore nei campi di battaglia? Il problema è che l’esigenza di giustizia deve crescere insieme a quella della solidarietà, della libertà, di chiamare le cose con il loro nome, perché la prima vittima della guerra e della violenza è sempre la verità, come vediamo oggi quotidianamente.

Soccorsi sulla scena dell’attacco missilistico russo a Sumy, Ucraina, che ha fatto almeno 34 vittime durante la Domenica delle palme, 13 aprile 2025 (foto Ansa)
Soccorsi sulla scena dell’attacco missilistico russo a Sumy, Ucraina, che ha fatto almeno 34 vittime durante la Domenica delle palme, 13 aprile 2025 (foto Ansa)

«Finalmente si muovono passi per la pace», ha aggiunto Zuppi parlando proprio del conflitto in Ucraina. Paradossale conseguenza di questi passi per la pace, però, è la corsa dell’Europa al riarmo per difendersi dalla “minaccia russa”. Non sono mancate voci critiche nella Chiesa rispetto a questo proposito annunciato da Bruxelles. Ma in un mondo sempre più incattivito, si può immaginare di sedersi disarmati al tavolo delle grandi potenze?

Il tema del riarmo è connesso all’esigenza della sicurezza e della difesa, come ha detto il Papa stesso al Giubileo dei militari, però rischia di attivare un percorso pericoloso. Nel febbraio scorso, a una conferenza sul disarmo a Ginevra, la Santa Sede ha insistito sulla proposta di un «disarmo generale, equilibrato e completo», destinando le risorse risparmiate a un fondo mondiale per la lotta contro la fame e la povertà. Mi rendo conto che può sembrare scandaloso per il mondo, ma lo è un po’ meno se si tiene conto di quanto denunciava il Papa nel messaggio per la Giornata mondiale della pace del 2022, cioè il fatto che le risorse impegnate globalmente per il riarmo erano già allora superiori ai livelli raggiunti durante la Guerra fredda, mentre calavano gli investimenti per l’educazione. Era il 1° gennaio, la guerra in Ucraina è scoppiata meno di due mesi dopo. Altrettanto profetico, sempre in quella occasione, l’affondo del Papa proprio sull’educazione come fattore di pace: educazione delle giovani generazioni a una cultura del rispetto e della conciliazione. Come credenti siamo convinti – come affermato nella cosiddetta “Dichiarazione di Abu Dhabi”, firmata dal Santo Padre e dal Grande Imam di Al-Azhar il 4 febbraio 2019 – della «importanza del risveglio del senso religioso e della necessità di rianimarlo nei cuori delle nuove generazioni, tramite l’educazione sana e l’adesione ai valori morali e ai giusti insegnamenti religiosi, per fronteggiare le tendenze individualistiche, egoistiche, conflittuali, il radicalismo e l’estremismo cieco in tutte le sue forme e manifestazioni». Il senso religioso è motivo di vera pace perché chi cerca davvero Dio non idolatra sé stesso e i propri beni ma piuttosto cerca e afferma un Tutto capace di valorizzare ogni uomo, il proprio fratello. Essere pellegrini della verità ci rende operatori di pace e di riconciliazione.

Il comunicato finale del Consiglio permanente della Cei insiste sul ruolo dell’Europa nella pacificazione della scena globale.

Sì, è un tema che ci sta sempre più a cuore. L’Europa è chiamata a recuperare le ragioni fondanti della propria esistenza come spazio di incontro tra popoli e di valorizzazione di culture diverse. Il cardinale Zuppi ha parlato di una «Camaldoli europea» ed è impressionante perché il Codice di Camaldoli fu redatto da un gruppo di cattolici nel 1943. Nel cuore di una immane tragedia, cioè, c’era chi già elaborava una visione di democrazia, incontro, libertà, giustizia. E noi? Abbiamo voglia, in questo momento buio, di pensare a un’alternativa? Alternativa che deve avere due “braccia”, a mio parere: da una parte l’Europa, dall’altra il Mediterraneo, di cui non dobbiamo stancarci di parlare come possibile bacino d’incontro.

La prima foto di papa Francesco diffusa dal suo ricovero al Gemelli il 14 febbraio scorso mostra il Santo Padre mentre concelebra la Messa nella cappella dell’ospedale, 15 marzo 2025 (foto Ansa)
La prima foto di papa Francesco diffusa dal suo ricovero al Gemelli il 14 febbraio scorso mostra il Santo Padre mentre concelebra la Messa nella cappella dell’ospedale, 15 marzo 2025 (foto Ansa)

Che cosa significa che la «condizione di fragilità» del Papa, come ha detto sempre Zuppi, «diventa ancor di più motivo di comunione»?

In un’epoca in cui sentiamo ripetere che ci sono vite che non meritano di essere vissute, il Papa ci dice innanzitutto che ogni condizione di fragilità è da vivere con intensità, con amore e davanti a tutti. In secondo luogo, ci ricorda che dentro la nostra fragilità è la forza del Risorto che vince, è l’amore che domina. Non è forse quel che è chiesto a Pietro lungo il lago di Tiberiade, quando Gesù gli domanda per tre volte: «Mi ami tu?», e poi gli dice: «Seguimi, pasci le mie pecore» e gli indica il modo in cui dovrà dargli testimonianza? «Nella vecchiaia un altro ti porterà dove tu non vuoi». Per i credenti, compreso Pietro, la condizione di malattia è l’esercizio di un amore, quello a Cristo, che diventa magistero. In fondo il Papa cosa deve fare, secondo il mandato di Gesù? Confermare i fratelli nella fede, presiedere nella carità la comunione della Chiesa. È quello che sta avvenendo: la prima fotografia pubblicata durante il ricovero mostra Francesco davanti a Dio, davanti all’altare, portando la sua fragilità, non nascondendola. Sta confermando la nostra fede. Il fatto poi che ciò avvenga in circostanze di debolezza risponde alla logica dell’incarnazione: Gesù chiama a sé vasi fragili per custodire e trasmettere un grande tesoro.

Lei non fa mistero della sua appartenenza a Comunione e Liberazione, di cui in passato è stato responsabile per la Sicilia. Come vive “da dentro l’istituzione” le correzioni e i cambiamenti dettati dalla Chiesa al movimento di cui lei stesso fa parte?

L’educazione che ho ricevuto in Cl da don Luigi Giussani è ad amare e servire la Chiesa nella sua oggettività, che è quella dei pastori e delle istituzioni. Ne sono grato. Ho sempre lavorato in curia, nelle parrocchie, senza alcuna difficoltà. Mi pare che questo aiuti a capire l’anima di un carisma che sta accanto all’istituzione chiamata a trasmettere fedelmente il deposito della fede. Non a caso Giovanni Paolo II parlava della “coessenzialità” di carisma e istituzione. Quanto ai richiami, sono una grazia, perché l’unico scopo di un movimento ecclesiale è l’educazione alla fede matura e non si può che accogliere come dono di grazia un’attenzione fatta anche di correzioni o di indicazioni di vie da percorrere. D’altra parte, se il magistero della Chiesa ha qualcosa da dire rispetto a un percorso, questo va accolto con disponibilità, con cordialità, con volontà di sequela fino a sacrificio. L’esperienza dimostra che, quando ciò accade, fiorisce la verità di un carisma.

Monsignor Giuseppe Baturi, segretario generale della Conferenza episcopale italiana dal 5 luglio 2022 (foto Ansa)
Monsignor Giuseppe Baturi, segretario generale della Conferenza episcopale italiana dal 5 luglio 2022 (foto Ansa)

E la Chiesa italiana in che stato è? Si parla da tempo, a ripetizione, di “emorragia dei fedeli”.

Innanzitutto, giustamente, la Cei si definisce come un ambito di comunione delle Chiese. Un plurale che dice anche di una diversità: la Chiesa in Sardegna non è come altre Chiese, continua ad avere un certo radicamento di popolo. È vero che nel complesso si registrano diminuzioni quantitative, ma al tempo stesso assistiamo all’emergere in tanti modi della domanda religiosa, di interrogativi profondi. Io vedo una grande opportunità per la Chiesa, quella di testimoniare la carità e la compagnia di Cristo dentro la condizione di grave povertà che gli uomini vivono oggi, dentro il dramma della solitudine e dell’individualismo, trasformando, come dice il Papa, i segni dei tempi in segni di misericordia, per suscitare la speranza. E poi abbiamo un compito culturale, più volte ripreso anche nel nostro Cammino sinodale: la Chiesa è chiamata a colpire il cuore degli uomini perché essi possano incontrare Cristo in un’esperienza fraterna, nella testimonianza della carità, e questo inevitabilmente risignificherà le dimensioni del vivere, l’amore come la sofferenza, il matrimonio, tutto. Siamo chiamati non a essere pochi, ma a essere essenziali nel messaggio, che è Cristo.

A riprova di un’asserita crisi della fede si cita spesso la progressiva riduzione della percentuale di contribuenti che scelgono di destinare l’8xmille alla Chiesa. È un fatto legato al calo dei fedeli? O crede che i cattolici italiani sottovalutino l’importanza di questo strumento e dunque lo trascurino?

Certamente può incidere un calo di affezione verso la Chiesa, così come fattori tecnici, per esempio l’allargamento della platea dei contribuenti non obbligati a optare per l’8xmille. Penso comunque che una sottovalutazione ci sia: in questi 40 anni – perché il sistema è stato introdotto con la legge 222 del 1985 – si è gradualmente persa consapevolezza di questo strumento, il primo, efficacissimo, di democrazia fiscale, grazie al quale i cittadini possono decidere la destinazione di parte del proprio reddito, e volto a garantire la libertà religiosa. Parliamo di un flusso impressionante a sostegno della presenza dei ministri del culto e soprattutto a favore della carità. Nel tempo la quota destinata alla carità in Italia e nei paesi in via di sviluppo è sempre aumentata: 80 milioni per più di 400 progetti nel mondo sono un’imponenza. La mia impressione, ripeto, è che tutto questo non si conosca adeguatamente.

In questi quasi tre anni nella segreteria della Cei le saranno passati sotto gli occhi chissà quanti progetti concreti realizzati grazie all’8xmille. Ci racconta quelli che le sono rimasti maggiormente impressi?

Guardi, io stesso per esempio sono stato personalmente in Siria per verificare progetti finanziati con oltre 9 milioni a favore di ospedali e ambulatori, forni sociali e altre attività caritatevoli. Sono rimasto impressionato perché lì davvero la differenza a volte è tra la vita e la morte. Si è riacceso un conflitto gravissimo in Congo, dove negli anni la Chiesa italiana ha destinato decine di milioni a favore di popolazioni che altrimenti non avrebbero avuto di che sopravvivere. Lo stesso ad Haiti e in altre zone. Interventi decisivi a favore di chi in sicurezza vuole raggiungere l’Occidente o di chi vuole rimanere per ricostruire quei territori così complicati. Penso poi, in Italia, a tantissimi progetti di carità: mense, accoglienza dei senzatetto, assistenza dei parenti che hanno bisogno di raggiungere i loro malati in ospedali lontani da casa. È un flusso enorme di iniziative che penso abbia contribuito a determinare il volto del welfare in Italia. Il genio dell’8xmille è aver tutelato e promosso la libertà religiosa come esperienza comunitaria, non solo individuale. Quindi fa bene a chi lo riceve, fa bene a chi lo promuove, fa bene alla società italiana.

Una scuola sostenuta con i fondi dell’8xmille

Un tema che appare un po’ “sparito” è quello della parità scolastica. Cade proprio nel 2025 il 25esimo anniversario della legge che l’ha istituita in Italia, e se ne parla sempre meno: la Chiesa ha rinunciato alla battaglia per la sua reale implementazione?

No, anzi, anche nei mesi scorsi abbiamo ribadito il nostro interesse perché vi sia una parità effettiva, per tante ragioni che Tempi conosce, a partire dal pluralismo dell’offerta scolastica e anche dalla giustizia. Abbiamo visto con favore misure introdotte da questo governo, per esempio l’aumento delle risorse destinate ai ragazzi portatori di disabilità. Anche aver fatto inserire le scuole paritarie tra i beneficiari dei fondi del Pnrr è positivo, così come l’aumento degli sgravi fiscali per le famiglie con figli in questi istituti. Misure, anche queste, a vantaggio dell’intera società. La direzione è giusta, ma c’è bisogno di ulteriore audacia. Da parte nostra il Consiglio nazionale della scuola cattolica lavora continuamente per avanzare proposte. Quindi no, non ci abbiamo rinunciato. La situazione è grave: la statistica indica che chiudono più o meno 200-250 scuole l’anno.

Colpa della mancata parità reale?

Bisogna essere onesti, le cause sono diverse, non ultima l’invecchiamento degli enti gestori. Il problema quindi è anche interno. Le scuole cattoliche, in una situazione così difficile, devono qualificarsi sempre più per la proposta educativa, per la capacità di creare una vera comunità educante, anche ai fini della continuazione di carismi educativi che altrimenti si esaurirebbero, e devono cooperare tra loro, così che le più forti aiutino le più deboli.

Una battaglia di cui si parla molto, invece, è quella intorno al fine vita. I vescovi sono scesi in campo contro la campagna per il suicidio assistito orchestrata dai radicali in diverse regioni. I fedeli laici invece paiono sempre meno convinti che valga la pena resistere. Perché dovrebbero battersi?

Parliamo di uno dei fondamenti della nostra vita democratica e costituzionale, che riguarda il diritto alla vita: io penso che non esista un equivalente diritto alla morte. Alle istanze pubbliche, perciò, vanno chieste leggi rispettose della vita, ma c’è anche una responsabilità che riguarda la comunità ecclesiale, che deve attivarsi per stare vicino a chi non chiede di morire, bensì di vivere con dignità, di vivere in amicizia. Preoccupa molto la prospettiva di una eventuale frammentazione sul territorio nazionale delle norme su un tema così delicato. E preoccupa ancor più questa remissione del diritto alla vita a favore dell’autodeterminazione di soggetti che, però, sono fragili perché colpiti da malattie e sofferenze insopportabili. Piuttosto si metta in campo a loro beneficio un piano per la vita, dalle cure palliative agli hospice alle azioni di volontariato. Bisogna evitare l’accanimento ma anche l’abbandono terapeutico.

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Una versione di questo articolo è pubblicata nel numero di aprile 2025 di Tempi. Il contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

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