La guerra dentro di sé, l’incubo dei soldati israeliani
«Quando sei sulla linea del fuoco non puoi permetterti di pensare a casa, ai tuoi cari, ai tuoi genitori, a tua moglie, ai tuoi figli. Non pensare alla base di Shura: devi ritornare, non puoi permettere che il tuo corpo finisca lì, lì in quell’incubo silenzioso. Puoi pensare solo a colpire il nemico, a coprire i tuoi compagni, a guardare davanti, sopra, dietro di te, ai tunnel dai quali possono attaccarti alle spalle, al terrorista che ti viene incontro stringendo tra le braccia un mitra e un bimbo piccolo con cui si fa scudo: un attimo di esitazione basterà a farti uccidere, devi sparare per primo e uccidere tu, non hai il tempo di prendere la mira, non sai chi ucciderai, spari a raffica: non auguro nessuno di trovarsi di fronte a questa scelta. Ti resta dentro, ci pensi ogni notte, ogni notte è un incubo», mi racconta un ufficiale della riserva, che ha lasciato la famiglia, la moglie incinta, la bimba piccola per andare a combattere.
Il gelo che resta nel cuore dei soldati
La base di Shura è un gigantesco obitorio dalle mura anonime e gelide costruito vicino alla striscia di Gaza. Lì vanno le famiglie a riconoscere i propri cari, e spesso c’è ben poco da riconoscere. Le bombe riducono i corpi a brandelli, tizzoni bruciati. «Volevo dare un bacio a mio figlio, sulla fronte», dice una madre, «ma mi hanno detto “signora non c’è nessuna fronte, non apra il body bag: lo seppelliremo così. È rimasta una sola mano intatta fuori dal sacco”. L’ho stretta per ore cercando di dare un po’ di calore a quelle dita gelate».
Una leggenda ebraica racconta che quando l’anima di un giusto ucciso vola in cielo porta con sé i dolori del mondo intero ed è così fredda che Dio deve tenerla per mille anni fra le sue braccia. Chi riscalderà le tante anime innocenti morte in questa guerra? Il gelo si distende su Gaza.
Quel gelo resta nel cuore di tanti soldati dopo le operazioni sul terreno, nei tunnel minati dove cercano i prigionieri rapiti da Hamas il 7 ottobre, o almeno i loro corpi, e sono quasi 300 i militari israeliani morti a Gaza, almeno dieci uccisi dal fuoco amico, dai colpi sparati dal loro stesso esercito in quella battaglia casa per casa. Dove la morte non fa distinzione e lascia altro freddo nel cuore di chi non muore, il gelo che si annida in una invisibile e insanabile ferita.
La sofferenza psicologica dei soldati dopo il 7 ottobre
Il centro di riabilitazione psichiatrica del ministero della Difesa di Israele ha curato oltre 6.400 militari dall’inizio della guerra nella Striscia di Gaza, il 7 ottobre 2023: il numero è tre volte superiore al totale di veterani feriti trattati in tutto il 2022.
Il 21 per cento delle persone ricoverate dal 7 ottobre riporta “ferite alla testa”, soffre di disturbi da stress post-traumatico o altre condizioni di sofferenza psicologica, si legge nella nota del ministero, che prevede l’anno prossimo altre migliaia di veterani da sottoporre a riabilitazione, considerato l’andamento della guerra e lo stress imposto dalle operazioni in ambiente urbano e dai combattimenti a distanza ravvicinata. Centinaia di specialisti hanno raggiunto i reparti entrati nella Striscia di Gaza su richiesta dei comandanti, per fornire una prima terapia di sostegno ai combattenti che hanno vissuto eventi traumatici di vario tipo.
A fine gennaio il tenente colonnello medico Lucian Tatsa-Laur, il capo psichiatra delle IDF, aveva dichiarato: «Solo nella prima settimana di guerra abbiamo reclutato rapidamente circa 800 psicologi, psichiatri, assistenti sociali e professionisti della salute mentale. Abbiamo inviato il nostro personale in strutture di trattamento specializzate nella gestione delle reazioni allo stress da combattimento».
«Non è possibile tenere troppi fronti aperti»
Cresce ogni giorno la tensione psicologica tra gli oltre 250mila militari professionisti, di leva e riservisti. Una tensione alimentata dalle incertezze della politica: il governo è stretto tra l’ultradestra che vorrebbe attaccare e ripristinare il controllo militare sulla Striscia e riportare gli insediamenti smantellati nel 2005 (sui social diventa virale il video di un gruppo di riservisti con il volto coperto che incitano i militari all’azione, a non perdere altro tempo, a non lasciare Gaza ad Hamas), e le pressioni dei familiari degli ostaggi che dicono: «Israele ha sempre trattato anche per un solo suo cittadino, perché non cerca di riprendere i negoziati?». Una parte delle famiglie scende in piazza ogni sabato sera e chiede che l’operazione a Gaza si fermi per permettere la ripresa delle trattative.
Anche gli Stati Uniti premono perché si fermi il progettato attacco via terra a Rafah e un generale mi conferma in privato: «Non è possibile tenere aperti troppi fronti – Gaza, Cisgiordania e soprattutto il Nord, il confine con il Libano – ma contemporaneamente viene studiata una operazione nel Sud del Libano per far arretrare Hezbollah e permettere il ritorno a casa degli sfollati dalle zone a rischio dell’Alta Galilea». Contraddizioni che pesano e si scaricano su chi è al fronte e non sa per cosa sta combattendo e quando tornerà a casa e al suo lavoro: contraddizioni che spingono l’opposizione a chiedere le dimissioni del governo e nuove elezioni.
«Ostaggi all’inferno e i politici pensano a se stessi»
Benny Gantz, leader centrista cooptato da Netanyahu come ministro del Gabinetto di guerra israeliano, ha chiesto al premier un piano per Gaza entro l’8 giugno – quando saranno passati otto mesi dall’attacco di Hamas – o il suo partito lascerà il governo. E ha sottolineato la sofferenza dei militari: «Mentre i soldati israeliani dimostrano un incredibile coraggio al fronte, alcune delle persone che li hanno mandati in battaglia agiscono con codardia e mancanza di responsabilità», ha aggiunto. «Mentre negli oscuri tunnel di Gaza gli ostaggi subiscono le agonie dell’inferno alcuni politici pensano a se stessi. Nel sancta sanctorum della sicurezza israeliana, considerazioni personali e politiche hanno cominciato a penetrare». Parole che hanno aggiunto ulteriore tensione alla già insostenibile situazione in cui vivono le famiglie di chi è nell’ esercito, e sono praticamente tutte, Israele e’ un paese piccolo.
«Non eravamo preparati ad affrontare il 7 ottobre»
Il professor Eyal Fruchter, Ceo dell’ospedale per malattie mentali Ma’ale Hacarmel sta studiando gli effetti dello stress post traumatico sui militari impegnati nella guerra più lunga mai affrontata da Israele nei suoi 76 anni di vita: «Ci stiamo occupando dei soldati e degli ostaggi liberati. Non eravamo preparati ad affrontare quello che è accaduto il 7 ottobre. Abbiamo avuto diverse guerre ma nulla paragonabile a questo. E nessuno sa dare cifre esatte perché il conflitto continua e non è possibile prevedere i disturbi mentali che si manifesteranno in futuro. È un trauma che continua. Siamo stati abituati a pensare che dopo la guerra bisognerà concentrarsi sulla ricostruzione materiale ma non si sono mai considerati gli effetti a lungo termine sulla salute mentale. Si può dire lo stesso per l’olocausto. Sono passate tre generazioni e ancora si parla di una sindrome post-olocausto ma ci sono pochi studi sugli effetti in termini di malattie psichiatriche».
«Quando agli inizi del Duemila sono cominciati gli attentati kamikaze nei centri commerciali», continua, «nessuno sapeva come aiutare i sopravvissuti a superare il trauma. Abbiamo capito con l’esperienza che non dovevamo sopprimere i sintomi con ansiolitici forti ma aiutarli a parlare, ascoltarli, ascoltarli subito, nelle prime ore. Lasciare che emergessero le reazioni e poi spingerli alla azione, a recuperare la vita normale, non fermarsi. Così per i militari: i primi momenti sono importanti. E il miglior aiuto può venire dagli amici, ritrovare i contatti con i propri commilitoni, la vicinanza è molto importante. È una cosa semplice ma molto importante. Bisogna preparare ogni soldato a sapersi prendere cura dei propri commilitoni feriti. Fargli sentire che sono vicini, che lo stanno curando, che non sono soli. Curare le ferite fisiche è anche il primo modo di curare il trauma psicologico. Il trauma di chi è stato ferito e di chi gli è accanto. Ora ogni soldato, prima di entrare a Gaza viene istruito su come comportarsi. Perché di fronte al compagno colpito non resti paralizzato dalla paura o dall’ orrore e possa poi vergognarsi per non aver saputo intervenire».
I danni post traumatici possono essere devastanti anche nel lungo periodo: «Agire aiuta e evita il senso di colpa o di vergogna, è la prima prevenzione dell’evento post traumatico. “Sono stato agghiacciato dall’evento ma ho reagito, sono tornato al mio posto, ho fatto quello che dovevo fare”: nessuno può impedire l’evento, cambiarlo, è terribile, è successo, ma se sai come agire ti sentirai molto meglio. Diversa è la situazione con gli ostaggi, parliamo di casi molto diversi. Anche perché abbiamo poche esperienze con donne che sono state prigioniere per periodi così lunghi, oltre duecento giorni, rapite in così grande numero. Gli effetti li vedremo in futuro. La prima cosa che facciamo è aiutarle a fare quello che vogliono, ad agire in modo indipendente, perché i loro carcerieri le costringono a chiedere il permesso per ogni cosa, a non essere libere. Bisogna riuscire a liberare le energie compresse e schiacciate da un eccesso di memoria e emozioni negative».
«Quando viene per la prima volta in cura qualcuno che ha subito un stress traumatico, io ora mi occupo dei militari e dei prigionieri liberati, la prima cosa che sei tentato di chiedergli è: come stai, come ti senti? E questo è totalmente sbagliato. Perché così lo spingo a riattivare sentimenti ed emozioni che si sono concentrate nella amigdala, la ghiandola del cervello dove hanno sede le memorie, che è intasata oltre il sopportabile, bisogna stimolare la parte del cervello che regola la azione, chiedergli che cosa vuole fare. Cosa ha in mente per il futuro, cosa sta pianificando. Cosa vuole fare ora. È un fenomeno osservabile con l’elettroencefalogramma, l’attività del cervello si sposta dalla regione della memoria, l’amigdala, alla regione della attività, la regione frontale. E l’emozione negativa si riduce».
Per vincere “questa guerra” non basterà il mitra
I primi dati raccolti dal ministero della Sanità confermano le preoccupazioni dei medici. La guerra sta logorando non solo i militari ma centinaia di migliaia di famiglie. Molti dei riservisti hanno dovuto lasciare il lavoro e questo accresce le preoccupazioni non solo per il rischio fisico ma anche per il futuro economico. Decine di migliaia di soldati appartengono a famiglie sfollate. Il segno traumatico di questi mesi, e si teme che altri mesi si aggiungeranno, marcherà Israele per anni. Un paese che dovrà in qualche modo confrontare il proprio futuro con un altro popolo traumatizzato, i palestinesi ora senza nazione.
Nei territori Palestinesi e tanto meno a Gaza non ci sono, o sono pochissime, le strutture psichiatriche, ma certo tra Gaza e la Cisgiordania sta crescendo una generazione che non conosce la normalità di una giornata senza guerra. Dove l’ infanzia non esiste. Questo accade ora nella Terra Santa per definizione, dove risuona la preghiera di poter servire Dio “liberati dalla paura e dalle mani dei nemici”. Paura e angoscia, la guerra che ognuno si porta dentro, e nella quale è difficile trovare una tregua. Alla ragazza o al ragazzo in divisa che incontriamo alla fermata del bus mentre torna dalla licenza per raggiungere la sua unità al fronte, per vincere “questa guerra” non basterà il mitra che porta a tracolla.
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