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La denatalità fa più paura del Covid

L'ultimo censimento Istat non riflette solo la portata del Coronavirus: l'ennesimo rapporto su un paese incapace di riempire le culle dice che davvero “non c'è più tempo”

Caterina Giojelli
11/12/2021 - 4:27
Società
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Nel 2020 in Italia per ogni bambino c’erano 5,1 anziani. E noi lanciavamo l’allarme “estinzione di massa” per colpa del cambiamento climatico. Nel 2021 conteremo solo 385 mila nuovi nati, scendendo sotto la soglia dei 400 mila. E noi a discutere di maternità “retaggio del patriarcato” e di Italia più verde digitale ed inclusiva. Nel 2020 il saldo tra nascite e morti è stato negativo di oltre 335mila unità. E noi qui a discutere di aborto, fine vita, sovrappopolazione.

Conosciamo la malattia, la diagnosi e la terapia. Ma rifiutiamo cura e vaccino. Non stiamo parlando del Covid-19 ma di una sciagura annunciata da decenni: «Nel 2048 avremo circa 835 mila morti e 390 mila nati, con i primi che saranno il doppio dei secondi. Sostenere che questo non sia un grave problema vuol dire negare l’evidenza», va ripetendo il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo, «è di fatto, la presa d’atto di una crisi demografica irreversibile destinata a consolidare il nostro Paese nelle posizioni peggiori in Europa in termini di squilibri strutturali», chiosa il demografo Alessandro Rosina.

I tragici numeri del censimento

I numeri del Censimento della popolazione e dinamica demografica – anno 2020 dell’Istat dicono che la recessione demografica in Italia ha raggiunto punte «inimmaginabili», forse paragonabili, dall’Unità d’Italia, solo all’anno 1918, quando la spagnola provocò quasi la metà degli 1,3 milioni di decessi registrati in quell’anno (il saldo fu 648 mila persone in meno; un secolo dopo i morti sono 740 mila, il saldo negativo è di oltre 335 mila persone). Al netto delle differenze territoriali (record di decessi per la Lombardia, +35,6 per cento rispetto al 2019, e record di anziani in Liguria, dove il rapporto tra bambini e anziani è di 1 a 7,6) nel 2020 per ogni bambino si contano 5,1 anziani (il rapporto era 1 a 3,8 solo dieci anni fa, nel 2011, e 1 a 1 nel 1971).

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Il censimento non riflette solo la portata della pandemia: come se l’allarme sull’inverno demografico non fosse già abbastanza e costantemente frustrato dai ripetitori dell’emergenza riscaldamento climatico, o il tifo per le culle vuote e l’impegno a proteggere il pianeta dai figli che per tutta la vita emetteranno Co2, questo, ennesimo, rapporto su un paese incapace di riempire le culle, dice che davvero “non c’è più tempo”. O si interviene o, esaurito l’effetto Covid, l’emorragia delle nascite ci porterà dritta, a metà del secolo, sotto la soglia dei 350.000 nati annui, alla costante crescita della domanda sanitaria di una popolazione sempre più vecchia, al rischio di un rapporto 1 a 1 tra pensionati e lavoratori. In altre parole, a uno scenario assolutamente incompatibile con qualsiasi possibilità di ripresa, crescita, sostenibilità e inclusività.

Vecchi, senza bambini e lavoratori

Infranti i confini simbolici del margine superiore dei 700 mila morti e del limite inferiore dei 400 mila nati, una soglia mai raggiunta negli oltre 150 anni di Unità Nazionale, come aveva ben previsto Blangiardo, ci ritroviamo ad essere non solo il secondo paese più vecchio del mondo (ci batte solo il Giappone) e quello della più grave depressione delle nascite, siamo anche il paese con il record di Neet in Europa (gli under 35 che non studiano e non lavorano) e con la più tardiva età delle madri alla nascita del primo figlio (oltre 32 anni).

Non solo, come ha ben descritto Alessandro Rosina nel saggio Crisi demografica. Politiche per una paese che ha smesso di crescere (Vita e Pensiero 2021), ci troviamo oggi «con uno dei peggiori intrecci nelle economie mature avanzate tra crisi demografica e questione generazionale. Gli squilibri demografici stanno sempre più riversando i propri effetti all’interno della popolazione attiva. Attualmente in Italia, la fascia dei 30-34enni risulta decurtata di circa un terzo rispetto a quella dei 50-54enni: valori inediti sia rispetto al passato sia nel confronto con il resto d’Europa», «dal 2005 al 2020 il peso degli under 35 sulla popolazione attiva è diminuito di 5 punti percentuali, ma quello sugli occupati si è ridotto del doppio».

Denatalità, l’eterno allarme

Ciclicamente in Italia si lancia l’allarme “inverno demografico”, il rischio Grecia, la rottura del giocattolo del ricambio generazionale, la riduzione delle generazioni in età riproduttiva: sono almeno dieci anni che da Blangiardo a Rosina, si costringe l’Italia a ragionare sulle drammatiche conseguenze dell’inarrestabile calo delle nascite, dieci anni che poco si è fatto e molto negato. Come quando si sprecavano titoli sulla “risorsa immigrati” (oggi ritirata in ballo da Elsa Fornero sulla Stampa), contribuito ma non certo soluzione al paradigma sociale del declino demografico.

Secondo le previsioni sulla popolazione pubblicate da The Lancet, più di 25 paesi perderanno circa metà della popolazione entro la fine di questo secolo, tra cui tutti i paesi dell’Asia orientale (Cina, Corea del Sud, Giappone e Taiwan) e buona parte di quelli dell’Europa centrale, orientale e meridionale (tra cui appunto Italia, Polonia, Spagna e Grecia), la piramide demografica si rovescerà con tutte le conseguenze del caso.

Una cura per immaginare il futuro

Ora siamo al dunque, con un nipote ogni cinque nonni e 33 ultrasessantacinquenni ogni cento soggetti in età attiva, numero che raddoppierà nei prossimi trent’anni. Ma con la possibilità di iniziare una “cura”, «la strada giusta è quella dell’assegno unico universale, allargato proprio a tutti», ripete Blangiardo a proposito dello strumento che insieme al pacchetto di misure integrate previste dal Family Act riconosce finalmente a un figlio lo status di bene per la comunità, a sostegno del principio che per il paese i figli non sono un costo privato a carico delle famiglie ma ciascuno ha un valore per la collettività. Obiettivo al 2030 di tutte le politiche per lo sviluppo, per i giovani e non solo quelle ad hoc per la famiglia dovrebbe essere aumentare il numero medio di figli per donna (da 1,2 a 1,75), sulla scorta dei “recuperi” registrati in Svezia e Germania.

Una cura “sperimentale” in un paese cresciuto a bonus, mancette di Stato e in cui troppe donne passate all’inattività per gestire i carichi familiari in pandemia potrebbero non rientrare nel mercato del lavoro. Ma una cura da tentare subito, mentre realizziamo che ciò che ci aspetta alla fine del Covid, è un’Italia incapace di immaginare il futuro, il domani, perché incapace di immaginarlo per qualcuno da mettere al mondo.

Foto Ansa

Tags: Alessandro Rosinaassegno unicodenatalitàfamily actgian carlo blangiardoIstat
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